Cultura e Spettacoli

Soldati insidia con 11 racconti l’anima del suo «amico gesuita»

Una raccolta di brevi narrazioni sui dilemmi della morale

Un libro composito, variamente proporzionato in molte riedizioni, arieggiante a climi, vicende legati alla propria avventura esistenziale risulta, a conti fatti, L’amico gesuita di Mario Soldati (Sellerio, pagg. 190, euro 10) in cui l’autore prospetta la silloge di undici racconti, ciascuno in sé compiuto. In effetti, un filo rosso raccorda gli alterni spunti narrativi secondo una sotterranea direttrice di marcia volta a perlustrare, vuoi con rispettoso sguardo, vuoi con più disinibite licenze, la sfera di una moralità della vita, di un senso religioso insieme cercato e disatteso, sempre incombente e altresì sempre eluso.
Nella dotta, circostanziata premessa di Salvatore Silvano Nigro (dal sintomatico titolo «Tra Joyce e Cocteau») è detto esemplarmente: «Nel racconto L’amico gesuita, che dà il titolo alla raccolta \ Soldati insidia l’anima immobile di un gesuita. Tenta di convertirla alla “vera vita”. E offre, come esca, la perversione di se stesso, nella prospettata avventura di una sedicenne. Fallisce...». E su analoghe tracce narrative si dispiegano i restanti racconti - da Concerto a Il fioretto, da Farmacia di notte a Nevrastenia, da I due maestri a Il campione, ecc. - rivelatori di quella impronta cattolica, già avvertita da Lalla Romano nella poetica di Soldati come sempre «vissuta e ripudiata». La silloge all’insegna dell’Amico gesuita, oltreché rifarsi anche informalmente alle melanconiche atmosfere joyceane dei celebri Dubliners, si dipana via via tra storie, vicende, personaggi amorfi, quasi ai margini della vita. Tanto da far dire, in una recensione di Guido Piovene allo stesso libro: «La coscienza del male è in lui continua, sorda, estenuante e insolubile... E di qui viene alla sua arte quel tono sempre evasivo, quella paura di fermarsi, quel toccare senza spremere, che certamente la distingue e le dà una sua speciale attrattiva».
Certo che appare perlomeno sorprendente quanta e quale è stata la progressione creativa nella prolungata carriera letteraria di Soldati. Venuto alla ribalta già sul finire degli Anni Venti, prima coi racconti di Salmace, poi con l’impareggiabile «diario in pubblico» America primo amore, lo scrittore torinese andò via via rinsaldando il proprio mestiere, il proprio stile in una forma insieme refrattaria e corriva, fino a sminuire in un indistinto bozzettismo drammi ed esperienze pure sconvolgenti.
Salvo qualche piccolo-grande capolavoro come La giacca verde (portato sullo schermo in un bel film di Franco Giraldi) e altri lavori di indubbio pregio come I racconti del maresciallo e Le due città, nei suoi anni più tardi, Soldati si tenne a un criterio espressivo di una «medietà» ben temperata. Quasi volesse tenersi in disparte, defilato e neutrale, nelle cose del mondo: «Quel tono sempre evasivo...

quel toccare senza spremere».

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