Dieci anni fa le più grandi società del mondo erano Microsoft, Exxon Mobil, Shell, General Electric e Citigroup: un produttore di programmi per computer, due compagnie petrolifere, una conglomerata attiva nella meccanica e nell'hi-tech, una banca. A prevalere era l'atmosfera da «old economy» sia pure riveduta e corretta in salsa moderna. Oggi se si guarda alla classifica di chi vale di più, è cambiato tutto e il web guida saldamente il gioco: in testa c'è Apple, poi, nell'ordine, Google, Microsoft, Amazon e Facebook. Quattro volti nuovi su cinque, con tre new entry che nel 2007 muovevano appena i primi passi: Google, Facebook e Amazon. Il trio è arrivato a dominare le graduatorie internazionali a tempo di record e oggi guarda il mondo dall'alto di numeri quasi incredibili. Se si somma il loro valore di Borsa (vedi anche grafico a fianco) si ottiene una cifra, 1.550 miliardi di dollari, che non è lontana dall'intero prodotto interno lordo dell'Italia, di poco superiore ai 1600 miliardi di euro.
COME IL PETROLIO
Ma si tratta di tre giganti buoni o piuttosto di tre colossi cresciuti troppo, destinati a diventare un problema per l'intera economia globale? A porsi la domanda, qualche settimana fa, è stato il New York Times che nella pagina degli editoriali ha dato la parola a Jonathan Taplin, docente alla Southern California e autore di un libro appena uscito «Move fast and break things», un titolo che è tratto da una citazione di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, che può essere più o meno tradotta come «muoviti alla svelta e rompi l'ordine costituito». Il problema è che ormai, secondo Taplin, l'ordine costituito è rappresentato dallo strapotere di gruppi come Google, che controlla l'88% delle ricerche online, della stessa Facebook (77% delle presenze sui social network) e Amazon (74% del mercato mondiale degli e-book, 50% delle vendite via web). Sono i nuovi monopoli, spiega Taplin, e bisogna trattarli come tali. Il riferimento è alle leggi adottate negli Stati Uniti tra il primo e il secondo decennio del secolo scorso, la normativa antitrust grazie alla quale venne smembrata la Standard Oil, la società creata da John Rockefeller che in una certa fase arrivò a controllare il 90% del mercato petrolifero americano.
E allora è tempo di «spezzettare» anche Google? Forse no, sostiene (fortunatamente) l'editoriale del New York Times. Ma qualche provvedimento sarebbe necessario. Il motore di ricerca con sede a Mountain View, in California, ha un tale peso, dice Taplin, da poter essere paragonato alla At&T, il monopolio telefonico durato in America fino a una trentina di anni fa. At&T, che per un certo periodo arrivò ad avere un milione di dipendenti, era considerato un monopolio naturale e regolato, in quanto a tariffe e condizioni operative, come un servizio di pubblica utilità. I risultati non sono stati malvagi: il centro di ricerca del gruppo, i Bell Labs, sono stati la culla di innovazioni come il transistor, il microchip, il laser, i pannelli solari, i telefoni cellulari e perfino il forno a microonde. Negli anni Cinquanta per mantenere il monopolio la società dovette impegnarsi a cedere ad altre società la possibilità di usare i propri brevetti. Senza corrispettivo per le innovazioni già registrate e con royalties «calmierate» per quelle future. Grazie a questa norma hanno potuto imporsi società hi-tech come Texas Instrument, Motorola e Fairchild Semiconductor.
SUPER-PROFITTI
La premessa secondo gli avversari dei re del web, è che ormai la forza del trio di colossi Amazon, Google e Facebook è tale da provocare un danno evidente ad altri settori. Quelli messi peggio sono l'editoria e l'industria musicale che in una quindicina d'anni hanno perso il 70% del giro d'affari di un tempo, con un colossale trasferimento di risorse dai creatori dei contenuti alle piattaforme internet. In generale, chiunque fondi il suo business sulla pubblicità è costretto a passare sotto le forche caudine dei giganti americani. Potrebbe trattarsi di un normale processo di distruzione creativa, inevitabile in ogni processo di innovazione, tecnologica e no. Ma alcuni economisti vanno oltre: Peter Orszag e Jason Furman, consulenti dell'ex presidente Obama, hanno pubblicato uno studio in cui parlano di «supernormali ritorni sul capitale» per i tre colossi che finiscono per disequilibrare i rapporti competitivi a vantaggio degli ormai monopolisti di Internet. L'esempio tipico è quello delle acquisizioni strapagate solo per creare linee di difesa alla propria attività. Nel 2014 per esempio Facebook ha comprato Whatsapp, allora promettente ma minuscola società con una sessantina di dipendenti, per 22 miliardi di dollari. Cifra monstre che probabilmente solo Facebook era in grado di pagare. Le tasche profonde consentono ai colossi anche di procurarsi qualsiasi tipo di tecnologia e di imporla, mettendo fuori gioco i concorrenti. È successo a Snapchat, social basato sulla possibilità di condividere foto e video che dopo qualche ora si autodistruggono. La società si è quotata in Borsa ma il titolo ha perso costantemente terreno. Merito, o colpa, di Stories, la funzione simil-Snapchat adottata da Instagram (social di proprietà di Facebook) e poi trasferita sulla stessa Facebook. In questo caso, secondo molti analisti, Golia ha ormai segnato il destino di Davide.
La soluzione, secondo Taplin, sarebbe quella di vietare ai giganti nuove acquisizioni. O di costringerle ad aprire i propri segreti ai concorrenti per rendere meno impari la competizione. O quantomeno di eliminare la norma sul copyright digitale introdotta negli Usa nel 1998 che si è rivelata un assist per Facebook e compagni, il principio del «safe harbour» (porto sicuro) in base al quale le piattaforme digitali non sono responsabili legalmente dei contenuti che pubblicano: li gestiscono e ne trattano vantaggio ma non sono chiamati a rispondere né della loro pubblicazione né del loro uso. È proprio questa norma (che l'Unione Europea ha messo in discussione con un pacchetto di norme che potrebbero essere presto approvate), a consentire loro di trattare da una posizione di forza con i produttori di contenuti.
I SIGNORI DEI DATI
A rendere inattaccabile la posizione della Trimurti del web è il controllo assoluto che i tre giganti hanno sul bene più prezioso: la conoscenza dei clienti. Google (in Borsa è quotata la società che la controlla, Alphabet) sa per filo e per segno che cosa i frequentatori del web cercano, Facebook quello che condividono e Amazon quello che comprano. L'Economist (che pur esprimendo sul tema molte preoccupazioni si è dichiarato contrario a uno smembramento dei giganti) ha dedicato al tema una copertina: «Le informazioni sui consumatori sono quello che era il petrolio un secolo fa», ha spiegato il settimanale. Che poi questi dati non vengano correttamente usati e che la privacy degli utenti si trasformi a volte in un inutile orpello, non fa che aggiungere, come dicono gli inglesi, «offesa all'ingiuria». Pochi giorni fa l'Unione Europea ha condannato Facebook a 110 milioni di multa. Al momento dell'acquisto di Whatsapp si era impegnata a non incrociare i dati dei suoi utenti con quelli della società acquisita. Poi, con il tempo, ha fatto il contrario. Ma anche le sanzioni servono a poco. Zuckerberg e i suoi, per i quali i soldi non sono un problema, non hanno fatto una piega: hanno detto che pagheranno subito, senza nemmeno fare appello.
A completare il quadro manca un dettaglio non irrilevante: è per i signori di Internet che il contrasto tra sovranità nazionale e globalizzazione raggiunge la massima espressione. Le norme di ogni singolo Paese, per esempio in campo fiscale, diventano di fatto carta straccia di fronte alla capacità dei protagonisti dell'economia globale di giostrare redditi e utili. Solo nel 2015, secondo un'inchiesta di Bloomberg, Google ha risparmiato 3,6 miliardi di tasse trasferendo i profitti prima in Olanda e poi alle Bermuda. Di recente si è accordata con l'Agenzia delle Entrate per pagare in Italia 306 milioni di arretrati.
Ma nel 2015 secondo un'inchiesta del Sole 24 Ore, ha pagato 2,2 milioni di imposte. Conto appena più caro per Amazon: 2,6 milioni. Quanto a Facebook nel 2015 i 27 milioni di utenti nel nostro Paese hanno fruttato al fisco italiano ben 200mila euro.
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