È facile inneggiare alle preferenze come a una «scelta di democrazia» e definire le liste bloccate, che il Pdl vorrebbe introdurre anche alle elezioni europee, come «lennesima prevaricazione dei partiti sui cittadini». È anche innegabile che il cosiddetto elettorato dopinione, che si informa sui candidati e sui loro orientamenti politici e personali, preferisce mantenere la possibilità di dare il proprio voto a un uomo o una donna con cui si sente in sintonia, anziché essere costretto a mandare a Strasburgo i prescelti degli apparati. Ma dopo avere partecipato da «cane sciolto» (cioè senza il sostegno delle segreterie) a due competizioni europee - nel 1984 con Pli-Pri e nel 1999 con Forza Italia - ed essere arrivato due volte primo dei non eletti, posso dire con cognizione di causa che il sistema delle preferenze, unica o multipla che sia, presenta a sua volta molti punti deboli. Primo, fa sì che la campagna elettorale si trasformi da scontro tra i partiti in una sotterranea lotta fratricida, in cui le energie dei candidati si concentrano fatalmente più sullobbiettivo di sottrarre consensi ai concorrenti che su quello di acquisirne di nuovi per la lista. Secondo, perché con collegi elettorali giganteschi, in cui bisogna fare un massiccio ricorso a manifesti, inserzioni su giornali e tv private, cene ed aperitivi solo per far sapere a milioni di persone di essere in lista, il sistema finisce con il favorire i candidati che dispongono di più danaro, o perché vi investono i propri, o perché sono riusciti a raccoglierne tra gli amici o tra organizzazioni bisognose di favori. Il tutto, comunque, si traduce in un enorme spreco di danaro: nel Nord-ovest, il collegio più popoloso, con la legge attuale un seggio può richiedere un «investimento» anche da un milione di euro, più o meno quanto un deputato europeo guadagna durante una legislatura. Terzo, perché - visto che per essere eletti occorrono moltissimi voti, da raccogliere in ambienti diversi e in regioni diverse, ci sono solo due modi sicuri per vincere: o si può contare su una solida fama nazionale, che possibilmente travalichi lambito della politica di partito, come Gabriele Albertini o Lilli Gruber nel 2004, o bisogna procurarsi lappoggio di organizzazioni molto strutturate in cui gli iscritti siano abituati a seguire le indicazioni dei vertici. Non per niente, nella rappresentanza della vecchia Dc, figuravano sempre diversi uomini della Coldiretti e nei partiti di sinistra abbondano di solito i sindacalisti. Assume comunque grande importanza il cosiddetto voto clientelare, cioè la possibilità di procurarsi, per rapporti professionali, alleanze elettorali, meriti acquisiti, origini geografiche, storia familiare o quantaltro, «pacchetti» di voti precostituiti che qualcuno controlla e mette a disposizione del candidato. Se poi questi «pacchetti» vengono dal partito stesso, o da una sua componente (per esempio, nel caso di Forza Italia nel Nord-Ovest, Comunione e liberazione), il gioco diventa ancora più facile.
Tutto questo per dire che se, sul piano formale, il voto di preferenza è senzaltro una «scelta di democrazia», questa scelta ha limiti ben precisi. Anche se ci sono le preferenze, le segreterie hanno da un lato il potere di escludere dalle liste i candidati troppo scomodi, dallaltro quello di privilegiare - mandandoli in televisione, facendoli partecipare alle manifestazioni di maggiore visibilità o semplicemente raccomandandoli agli attivisti -, quelli che vogliono fare eleggere. Perciò sono abbastanza convinto che - qualunque sia la legge elettorale - a Strasburgo andranno comunque (con qualche rara eccezione) gli uomini che i partiti vorranno, ma con dispendio di soldi ed energie molto minore se la preferenza sarà abolita. Del resto, nel caso del Parlamento europeo, questo ha anche un senso politico: i deputati, infatti, non vi rappresentano tanto collegi elettorali, come accade a Montecitorio o a Palazzo Madama, quanto i loro partiti ed il loro Paese, ed è pertanto giusto che siano selezionati di conseguenza.
Livio Caputo
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