Soltanto due squadre non hanno «emigrati»: Italia e Arabia Saudita

Tutti gli uomini di queste nazionali giocano nel loro Paese All’opposto c’è la Costa D’Avorio: 23 su 23 stanno all’estero

Tony Damascelli

Figli di sceicchi e figli di papà. Il mondiale di pallone ha i suoi privilegi e i suoi privilegiati. Da una parte i denari, tanti, scintillanti, garantiti come premio da sponsor e giurie varie. Dall’altra le comode abitudini di chi gioca nel Paese di nascita e non si muove da questo. Che vuol dire? Che Arabia Saudita e Italia sono le due sole Nazioni partecipanti alla fase finale della coppa del mondo a presentare una «rosa» tutta indigena, nessun emigrato, nessun forestiero di ritorno.
Il resto dell’universo calcistico frequenta la globalizzazione, ma arabi e italiani stanno ben attaccati alle radici, agli ingredienti del territorio, per mutuare la fraseologia un po’ sciocca dei gastronomi.
Almeno la nazionale dell’Arabia Saudita può contare su un allenatore straniero al cento per cento, Marcos Cesar Diaz Castro, di cognome Paqueta e basta, è un brasiliano che ha preso il posto di un altro sudamericano, l’argentino Calderon che a sua volta aveva tolto la panchina a un arabo che a sua volta aveva fatto lo stesso con un olandese, perché da quelle parti il mandato di commissario tecnico è come la porta girevole di un albergo, si entra e si esce al volo. Ma dove c’è il petrolio di sicuro c’è uno che viene dal Paese del sole e del pan de azucar. Paqueta, dunque, e tutta l’araldica che si porta appresso, deve gestire un gruppo che è praticamente composto da due blocchi: in nove giocano nell’Al Ittihad di Jeddah e in sette nell’Al Hilal di Riyadh.
Dei nostri azzurri non molto da dire, tutti spaghetti e mammà, giocano il campionato più bello e ricco del mondo, fino all’altro ieri però. L’unico oltre frontiera che avrebbe avuto la possibilità di giocarsi l’ultimo mondiale era Christian Vieri, reduce dagli ozi e dagli infortuni nel principato di Montecarlo ma Lippi ha dovuto rinunciare anche a Bobo che avrà il cuore diviso per l’Italia e l’Australia, sua terra calcistica di ritorno probabile, sussurrato nei corridoi del calcio mercato.
E le altre? Un bel carrefour, gente che va e che viene, passaporto aperto, cittadini del mondo. L’Angola, ad esempio, è vivaio eterno del football portoghese (Mantorras attaccante del Benfica) ma riesce ad esportare anche in Kuwait (il centrocampista Andrè nello Sport Club), in Inghilterra (il difensore Rui Marques nel Leeds), in Francia (la punta Bwengo al Clermont Foot). L’Inghilterra ha due soli espatriati, Beckham a Madrid e Hargreaves a Monaco di Baviera (ma il centrocampista del Bayern è di origine canadese).
Poi c’è la facciata B del disco arabo italiano, cioè le nazionali che non hanno un solo calciatore che giochi nel campionato del Paese d’origine. Un caso unico su tutti.

La Costa d’Avorio di Drogba. 23 su 23 all’estero, distribuiti tra Tunisia, Francia, Belgio, Inghilterra, Italia, Grecia, Olanda. Ma dopo il mondiale chissà quanti arabi troveranno un posto all’estero? Dico dei calciatori ovviamente.

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