Ci dev’essere qualcosa di sbagliato se in quattordici anni, tanto è passato dalla famosa legge Treu, siamo riusciti a scorticare via dall’aggettivo «flessibile» ogni connotazione positiva. Ora è praticamente un’ingiuria e per cogliere la contraddizione basta pensare alla conseguenza linguistica: il contrario di flessibile, «rigido», dovrebbe è quindi diventato un termine positivo? A girare la domanda a chi ha un posto di lavoro fisso si ottengono risposte che possono apparire sorprendenti, a fronte di tante polemiche sul precariato. Da un sondaggio della Fondazione Nord-Est è emerso che il 63 per cento dei lavoratori dipendenti sarebbe disponibile all’introduzione di forme di flessibilità all’interno dell’azienda in cui lavora. Una percentuale appena inferiore si dice interessata a partecipare attivamente alla formulazione di idee per l’innovazione in azienda. Sorpresa: anche tra i 17 milioni circa di italiani col posto fisso, crisi permettendo, c’è voglia di cambiare, di cimentarsi in sfide: insomma, anche i dipendenti non sono un popolo di sonnacchiosi timbratori di cartellino.
Tra questi due volti della flessibilità, l’impiego precario e quello fisso e immutabile, c’è di mezzo il mare di un mercato del lavoro spaccato tra garantiti e no. Non c’è dubbio che sia tutt’altro che funzionale il modo in cui vengono impiegati i 4 milioni di precari veri, fonte Cgia di Mestre, più altri tre di «bamboccioni», pagati così poco da esser costretti a restare in famiglia. Ma, a giudicare dalle risposte dei lavoratori al sondaggio, la soluzione non è certo nella filosofia del posto «surgelato» a vita, così tipico dell’impiego pubblico, ma anche di tante grandi aziende. Lo stesso studio, rileva in media un diverso atteggiamento dei lavoratori verso l’azienda piccola e grande: nelle ditte con meno di dieci dipendenti, si rileva meno stress, migliori rapporti con i datori di lavoro, una visione più rosea delle prospettive di carriera.
Nonostante tanto dibattito, non si è ancora trovata una soluzione all’eccesso di precariato, che oltretutto rischia di scaricare sul welfare costi che competerebbero all’azienda. Ma, a forza di scagliare anatemi contro la flessibilità, c’è il rischio di dimenticarsi che può fare rima con libertà.
Nove lavoratori su dieci, dice la Fondazione Nord-Est, sono favorevoli a un modello di lavoro meritocratico-solidale, la voglia di egualitarismo è molto meno diffusa di quanto si possa pensare: il 40% dei lavoratori preferisce trattare direttamente con il datore di lavoro, mentre il ricorso al sindacato ormai riscuote fiducia solo in uno su quattro.
A mostrare la voglia di crescere in azienda c’è anche la percentuale di dipendenti disponibili a sacrificare parte del proprio tempo libero per un corso di formazione: sei su dieci. E uno su cinque è già impegnato a studiare per migliorare la propria posizione lavorativa. «Il tema della collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro -dice Daniele Marini, direttore scientifico della fondazione- registra ampi spazi di convergenza tanto dal punto di vista degli imprenditori, quanto da quello dei lavoratori, come dimostra il confronto tra altre ricerche e la nostra». La crisi comprime anche psicologicamente le aspettative da troppo tempo. C’è in giro voglia di tornare a incidere sul proprio futuro, di non rassegnarsi. E, allo stesso tempo, di non sdraiarsi sulla retorica del «reddito garantito», cara a una parte dei difensori d’ufficio dei precari.
Già da qualche mese gli economisti si trastullano con una definizione ad hoc: «I lavoratori imprenditivi», cioè quelli pronti a sognare qualcosa di più del posto fisso. D’accordo, non sarà eletto neologismo dell’anno.
Ma che si sia dovuta creare una parola nuova è significativo: guai a chiamarli col loro nome, «lavoratori flessibili». Ma forse le nostre vite in azienda cambieranno solo quando avremo il coraggio di sfidare questo tabù linguistico.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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