Sopravvivere da gay nella provincia profonda

Il vitalismo tondelliano ha trovato un approdo naturale ed anche un potente, notevole rilancio nella vocazione per il teatro dell’umbro Filo, protagonista balbuziente, semicieco e omosessuale del recente romanzo di Edoardo Albinati e Filippo Timi (Tuttalpiù muoio, Fandango, pagg. 154, euro 15,50). Filo è un alter ego di Timi, interprete disturbante e proteiforme, vincitore nel 2004 del premio Ubu come miglior attore under 30. Che il ruolo di Albinati sia stato soltanto maieutico? Non ne siamo certi, ma in fondo ciò non conta poi molto: conta la credibilità e la compiutezza delle numerose avventure picaresche e tragicomiche di cui è ricco il volume, il procedere allegro o sconsolato, ma sempre incalzante della narrazione, la densità umana e sociale su cui essa posa. Il lettore ha tra l’altro la sensazione di essere di fronte ad una scelta da un materiale più vasto, o ad una delle tante possibili rappresentazioni di un’esistenza che ha nel teatro, nella poesia ed ora anche nel romanzo le sue propaggini.
La recitazione, vale a dire la disponibilità a trattare se stessi come uno strumento, e non come un fine, inizia addirittura in fase prenatale: «Nasco come tutti dalla mamma, come tutti a sette mesi dopo che la mamma per sbaglio si versa dell’acqua bollente sul pancione. Mi sono cacciato fuori, perché dove stavo non era sicuro come sembrava». Il sospetto di una intrinseca pericolosità del domestico diventa, con il passare degli anni, certezza, perciò la passione per la scena diventa anche un mezzo per sfuggire alla provincia di Ponte San Giovanni e ad una famiglia arcaica che fa quel che può, di fronte ad un figlio che ben presto esibisce un campionario completo degli atteggiamenti che un contesto arretrato per l’appunto censura. Ma anche qui è interessante vedere come la reazione benpensante della cittadina non sia spietata, e preferisca ripiegare su soluzioni di compromesso: dall’ironia all’accettazione riluttante, dall’ipocrisia alla negazione tattica del «fatto». Rivelatore l’episodio in cui il ragazzo, che ha studiato all’istituto d’arte, indirizzo disegno di moda, è sorpreso dalla madre al tavolo da lavoro sommerso da un groviglio di stoffe, aghi e forbici, mentre cuce un bislacco costume da pattinatore. La donna osserva: «Eh, Filo non diventerà ordinato... finché non pija moje...». Quindi sospira e dopo una pausa conclude: «O marito». Altri episodi non hanno la stessa leggerezza, Albinati e Timi non arretrano di fronte all’oscenità e probabilmente non dispiace loro épater le bourgeois: come nella pagina in cui Filo, per attentare al professore asino e nascostamente omosessuale, si alza dal banco e gli va incontro per baciarlo.
Il legame con le origini non si scioglie quando il giovane attore parte per Milano o Roma in cerca del successo. I ritorni disperati nella casa dei genitori, e più in generale il ritmo desultorio delle vicende narrate, allontanano la tentazione di vedere Tuttalpiù muoio come un romanzo di formazione.

In realtà la crescita di Filo procede a strappi: una perdurante pesantezza centripeta frustra lo slancio verso l’emancipazione e lo riconduce ai più miti consigli di un moto a pendolo. Ma non importa, anzi: l’epilogo umbro, la lunga allucinazione del matrimonio (a suo modo riparatore) del protagonista è una delle cose più pregevoli che ci sia capitato di leggere negli ultimi tempi.

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