di Andrea Tornielli
La Chiesa italiana si stringe alle famiglie dei soldati morti nellattentato di due giorni fa in Afghanistan, chiede che si ripensi «come restare» a Kabul ma al tempo stesso non ritiene praticabile un immediato ritiro delle nostre truppe impegnate in una missione di pace che si trasforma ogni giorno di più in missione di guerra.
Più di qualcuno potrebbe stupirsi di questa posizione, immaginando che la Conferenza episcopale italiana e la stessa Santa sede, tradizionalmente contrarie alle guerre e impegnate per risolvere con le armi della diplomazia e del negoziato i conflitti e le crisi internazionali, siano in prima linea nel chiedere il rientro dei nostri militari, dopo lalto prezzo in vite umane pagato dal nostro Paese. In realtà, pur nella drammaticità del momento, è proprio la Chiesa a ricordare che vi sono tanti motivi per restare, nonostante i rischi sempre più alti.
Ieri mattina il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, che prima della nomina ad arcivescovo di Genova era stato per tre anni Ordinario militare e in questa veste aveva più volte visitato le nostre missioni allestero, ha ricordato che i militari italiani sono «uomini di pace e di dialogo», riconosciuti «da tutti come uomini buoni, capaci di ascoltare e di stabilire rapporti, lontani dalla conflittualità». Significativa la frase conclusiva del porporato: il ricordo delle vittime «deve diventare motivo ulteriore per stringerci gli uni agli altri pensando in particolare ai loro familiari e a tutti gli altri militari che, in Afghanistan e altrove, svolgono il loro servizio per lordine e la pace per un migliore futuro di tanti popoli e di tanti Paesi». Parole che nel ribadire la natura della missione italiana ne sottolineano limpegno positivo.
Più esplicito e articolato il giudizio messo in pagina dal quotidiano cattolico Avvenire, nelleditoriale firmato da Andrea Lavazza, che ricorda come «il tentativo di puntellare una fragilissima democrazia» si scontri «con lostinata resistenza di un coagulo di radicalismi religiosi islamici, di mire geopolitiche esterne e di interessi economici legati alla droga». Alla domanda se valga ancora la pena di presidiare Kabul, il quotidiano della Cei risponde di sì, per evitare «il collasso della regione e il ritorno del Paese a santuario della rete di Bin Laden, non dando limpressione ai fondamentalisti che le grandi democrazie siano deboli e arrendevoli. E, prima di ogni altra cosa, si può e si deve stare a fianco della popolazione afghana che sinceramente aspira a vivere fuori dallincubo di una guerra permanente».
La Santa sede, da parte sua, non ha espresso posizioni ufficiali sullargomento. E a chi ricorda il fiero impegno di Papa Wojtyla, ormai anziano e malato, e di tutta la diplomazia vaticana, per impedire la guerra in Irak del 2003, nei sacri palazzi si ricorda la sostanziale differenza tra la guerra in Afghanistan e quella contro il regime di Saddam Hussein scatenata successivamente. «La prima poteva rientrare nel diritto alla difesa - spiegano al Giornale autorevoli fonti vaticane - perché in Afghanistan si trovavano le centrali del terrore. Lo stesso non si può invece dire per lIrak». In ogni caso, si fa notare, si tratta di missioni internazionali, e la necessità di stabilizzare quei Paesi e di non abbandonarli a se stessi esiste, anche e soprattutto dopo azioni di guerra condotte con grande dispiegamento di forze in modo relativamente rapido ma senza strategie lungimiranti sulla gestione del dopoguerra.
Celebrando le esequie dei caduti di Nassirya, nel 2003, il cardinale Camillo Ruini aveva detto: «Non fuggiremo davanti ai terroristi assassini, li fronteggeremo con coraggio, energia, determinazione. Ma non li odieremo... Tutto limpegno dellItalia è orientato a salvaguardare e promuovere una convivenza dove ci sia spazio per la ragione».
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