In America qualcuno già scrive che il caro petrolio finirà per bloccare la globalizzazione; di certo sta inducendo diverse industrie a rivedere le proprie strategie produttive. La Cina è molto più cara rispetto a qualche anno fa, per ragioni note come la rivalutazione dello yuan e gli incrementi salariali. Ma con il barile a 140 dollari anche il costo dei trasporti diventa cruciale. E delocalizzare non conviene più, specialmente dagli Usa.
Qualche cifra: spedire un container via nave dalla Repubblica popolare in America costa 5.300 dollari, con un aumento del 15% rispetto a gennaio. E il mese prossimo ce ne vorranno 5.600. Dal 2000 a oggi il costo è triplicato. Risultato: molte aziende trovano più conveniente produrre negli Stati Uniti o in Paesi vicini come il Messico. Insomma, la prossimità tra il luogo di produzione e il principale mercato di sbocco sta tornando a essere strategica, come ai tempi dello choc petrolifero. Sono numerose le aziende che hanno interrotto i programmi di insediamento in Asia, riaprendo o ampliando le fabbriche in patria. Non in tutti i settori, ovviamente: lelettronica, a esempio, resta ancorata in Oriente per vantaggi logistici e tecnologici garantiti dai distretti specializzati. Ma per i beni a basso valore aggiunto la tendenza è significativa. Daltronde, meno caro è il prodotto, più il costo di trasporto incide. Ecco perché per la prima volta, in oltre dieci anni, le esportazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti sono addirittura scese in questo segmento, secondo uno studio della Cibc World Markets.
E in Europa? La forza delleuro compensa parzialmente gli aumenti del petrolio e, dunque, il fenomeno è meno evidente.
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