Soru, il «padre padrone» licenziato in tronco Il tracollo politico del tycoon che sognava di sfidare Berlusconi: nonostante l’acquisto dell’«Unità», gli attacchi quotidiani al premier e quattro anni di amministrazione autoritaria, il Bill Gates di

nostro inviato a Cagliari

Voleva battere Berlusconi, ha perso con Cappellacci. Non gli hanno giovato quattro anni e mezzo di «governo forte». Non gli ha portato un voto l’acquisto dell’Unità. Non gli è bastato il colpo di genio di anticipare i tempi del voto per cogliere di sorpresa il centrodestra e costringere il centrosinistra a compattarglisi attorno. Non gli è servito denunciare Silvio Berlusconi per qualche frase di un comizio. Non ha sfondato con la sua campagna elettorale in abito di velluto.
Quella di Renato Soru è una sconfitta senza appello. Nel 2004 la sua galoppata era stata entusiasmante, senza briglie: aveva infranto il tetto del 50 per cento con 90mila voti più di quelli raccolti dalla coalizione che lo sosteneva. L’uomo nuovo, l’imprenditore di successo che giurava di cambiare la politica, lanciava il sogno di una Sardegna diversa, sfruttava la forza di «Meglio Soru». Di tutto ciò non è rimasto nient’altro se non le promesse non mantenute.
Alla vigilia si diceva sarebbe stato un testa a testa. Invece i primi risultati dicono che non c’è stato nemmeno quello. È stato un tracollo. La Sardegna ha cacciato il «padre padrone», l’imperatore è stato esiliato. Soru aveva lanciato un referendum su se stesso, sul suo decisionismo aspro e solitario, sul suo personalissimo stile di governo spigoloso e autoritario, sull’orgoglio autonomo e autonomista. La bocciatura non potrebbe essere più netta.
Il Bill Gates di Sanluri era giunto sull’onda della voglia di rinnovamento. Aveva dipinto una Sardegna ideale che voleva ripristinare. Di mese in mese, si è invece dimostrato l’uomo delle tasse, dei divieti e delle deroghe. Tasse sul lusso, sulle seconde case, sulle barche che attraccano, sugli aerei che atterrano. Divieto di costruire, di espandere le attività economiche. Deroghe largamente concesse agli «amici», accordi generosamente stipulati con i soci come Carlo De Benedetti, fino a poche settimane fa secondo azionista di Tiscali.
Le grandi promesse non sono state mantenute, il sogno non si è realizzato: è questo che ha segnato la sconfitta di Soru. Le illusioni che aveva alimentato nei sardi si sono ritorte contro di lui. Si è rivelato un amministratore autoritario, che pensava di trasferire nell’ente pubblico il metodo dell’«uomo solo al comando» che può funzionare in un’azienda dove si sa chi possiede la quota di maggioranza, ma non in politica dove la capacità di mediazione è un’arte che bisogna fare propria.
Fallimento di governo, fallimento anche come uomo politico: Soru si è dimostrato incapace di tenere assieme la coalizione di centrosinistra. C’era stata un’avvisaglia che il governatore avrebbe dovuto cogliere per tempo: tentò di diventare primo segretario del neonato partito democratico sardo, pensava di sbaragliare il campo, credeva che il suo carisma bastasse per impugnare anche il nuovo soggetto del centrosinistra. Fu sconfitto alle primarie da Antonello Cabras, e fu una battuta d’arresto dolorosa. I resti di Ds e Margherita gli avevano mandato un segnale preciso: il governatore pensi a governare la regione.
Ma Soru non volle ascoltare il monito che gli veniva dai suoi stessi elettori. Ha forzato la mano. Ha tirato dritto sulla strada di «padre padrone». L’azione di governo collezionava ricorsi su ricorsi, intasava il Tar della Sardegna, ingolfava il Consiglio di Stato, tuttavia il governatore non si preoccupava di correggere la rotta. Prometteva treni veloci senza bandire gare d’appalto. Parlava di sviluppo mortificando il turismo. Garantiva posti di lavoro in mancanza di una politica economica che sostenesse le aziende.
Sono arrivate anche le inchieste giudiziarie, come quella sull’appalto alla società Saatchi & Saatchi: inchiesta ora chiusa, dopo il voto arriveranno le richieste dei magistrati. Invece di abbassare i toni, Soru li ha alzati. Ha anticipato il voto drammatizzando uno scontro interno su un emendamento della legge regionale urbanistica. Pensava di cogliere impreparati gli avversari. Prevedeva di evitare le primarie nel centrosinistra o comunque il logoramento che avrebbe accompagnato gli ultimi sei mesi di governo. Ha preteso l’esclusione dalle liste dei «vecchi» della sinistra, che in silenzio, come si usa da queste parti, gliel’hanno giurata. E il massiccio ricorso al «voto disgiunto» (preferenza a un candidato presidente diverso dalla coalizione che lo appoggia), che cinque anni fa era stata la cifra della sua vittoria, è diventato l’arma della sua sconfitta.


E soprattutto, in campagna elettorale ha scelto come avversario non Ugo Cappellacci, ma Silvio Berlusconi. La battaglia è stata tutta giocata contro il premier. Pensava di infilzare il Cavaliere per cucinarsi anche Veltroni. Alla fine sullo spiedo è finito lui.

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