Il sottile diplomatico che vedeva «rosso»

Magro come un chiodo e convinto germanofilo, portò a termine con successo la sua missione a Berlino. Ma per tutta la vita fu ossessionato dal comunismo

Ebbe una naturale inclinazione verso il mondo tedesco, nonostante fosse un romano puro. Era rampollo di una famiglia bigotta e papalina che, ancora all’epoca della sua nascita, teneva chiuse le persiane di casa per protestare contro la breccia di Porta Pia. In questa penombra autoimposta per motivi politici, il Nostro crebbe ascetico, piuttosto malaticcio e pure un po’ ruffiano. Al Ginnasio, in un tema intitolato «Il mio ritratto», si dipinse così: «Volentieri io vengo a scuola e studio con amore, poiché conosco che ogni cosa sarà poi di mia utilità. I miei genitori, il mio caro Professore, mi amano sommamente e io procuro di contraccambiare in ogni modo... Certo che menzognero sarei se io venissi a dire che merito questo loro amore; no, tutto è per loro bontà».
Il pallino per la Germania si manifestò inizialmente con la musica. Imparò presto a suonare il violino. Tipico del tedesco, improbabile in un italiano. Passò poi al piano che suonava a orecchio, ma con abilità da virtuoso. Il suo repertorio era esclusivamente germanico, soprattutto Beethoven. Tale fu la predilezione per il maestro di Bonn che, prima di morire a 83 anni, il suo ultimo desiderio fu ascoltare il disco della Pastorale. Era ancora ragazzo quando si cimentò infine con la lingua che apprese da autodidatta con grammatiche e lessici. Per questa consonanza con l’universo di Goethe, divenuto diplomatico ottenne il primo incarico in Germania. Era il 1917 e l’Italia era in guerra contro gli Austro-Tedeschi. Fu spedito a Monaco e dopo qualche tempo a Berlino.
Nonostante l’inimicizia tra i popoli, il Nostro piacque. La finezza del tratto e la moderazione delle parole ispirarono immediata fiducia. Un giornale di Monaco scrisse: «Una maestosa figura cammina per le strade della città. Attraverso le lenti degli occhiali cerchiati d’oro, i suoi occhi brillano... come animati da una luce». Descrizioni come queste venivano spontanee di fronte alla figura allampanata del quarantunenne. Pareva un Don Chisciotte in terra bavarese. Era scarnificato da far paura: 54 chili, per un’altezza di 1,82.
Il Nostro si gettò corpo e anima al miglioramento delle condizioni degli italiani internati in Germania dopo Caporetto. I poveretti erano considerati traditori della Patria dalle nostre autorità che trascuravano dolosamente di inviare generi di conforto. Il premier, Orlando, e il generalissimo Cadorna, li accusavano di essersi arresi e di aver causato la sconfitta per codardia. «Non meritano neppure una galletta», dicevano i generali. «Imboscati d’oltralpe», li chiamava D’Annunzio. Ma era solo un modo ignobile di scaricare sui soldati semplici l’inettitudine degli alti comandi. Così, vittime dell’ipocrisia, i prigionieri morivano di tubercolosi e dissenteria nei lager. Il solo a confortarli era il lampionesco diplomatico che un giorno si presentò a Cella, campo di concentramento presso Amburgo. Tra gli internati, lo scrittore Carlo Emilio Gadda che ci ha lasciato del visitatore una descrizione prima disincantata, poi commossa. «Alto, lungo, naso adunco e affilato. La sua voce era acuta, il tono untuoso e calcolato, il suo discorso sembrava preparato. Tuttavia, suonò in lui la voce della pietà e gli occhi mi si riempirono di lacrime».
In Germania, o meglio nella Svizzera tedesca dove era andato a ritemprarsi in un’abbazia, conobbe la donna della sua vita. Assalito durante la vacanza da un terribile mal di stomaco, affezione che lo tormentava da sempre, l’infermo fu affidato a una novizia. Costei, Josephine Lehnart, era una ventitreenne (18 anni meno di lui) con qualche infarinatura di dietetica. Nata nei dintorni di Monaco, settima di dodici fratelli, aveva occhi celesti e zigomi alti. Non era bella, ma sapeva il fatto suo. Con un’azzeccata poltiglia a base di riso, la ragazza risolse ogni problema. Il malato, incantato, le chiese di seguirlo a Berlino. La giovane accettò, rinunciando a partire per il Cile dove era destinata. Fu un legame profondo in cui spesso prevalse la personalità di Josephine e durò fino alla morte del Nostro.
Di che tempra fosse la fanciulla si vide subito giunti a Berlino. La città nell’immediato primo dopoguerra era dominata dagli spartachisti, comunisti rivoluzionari. Una banda si recò in casa del diplomatico e gli intimò di gettare dalla finestra i simboli della ricchezza e quelli religiosi. Mentre l’altro rispondeva gelido: «Non ho paura di voi» e il capociurma, per tutta risposta, gli puntava la pistola addosso, Josephine si interpose facendo scudo al Nostro col proprio corpo. Il brigante, stupito dal coraggio della donna, richiamò gli scagnozzi e fece dietro front. L’episodio instillò nel diplomatico un anticomunismo feroce che non lo abbandonò mai più. Tuttavia, fu anche fiero antinazista. Di Hitler diceva: «Un invasato egocentrico. Un distruttore capace di calpestare i cadaveri». Ma il comunismo restò la sua ossessione.


Venti anni prima di morire ottenne lo scettro che fu già dell’imperatore Costantino. Alla sua morte, il corpo male imbalsamato scoppiò. Ricomposto alla meglio, fu esposto nove giorni all’omaggio dei suoi innumerevoli fan.
Chi era?

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