La sottile striscia bianca che eccita i romanzi italiani

E' una sniffata unica dagli operai della Avallone alla borghesia di Mondadori. Gli autori prendono atto della «moda cocaina» e ne registrano gli effetti disastrosi

La sottile striscia bianca che eccita i romanzi italiani

Quella cara, vecchia babbiona moralista di Agatha Christie potrebbe uscirsene, depositando la tazza di tè sul piattino e mordicchiando un dolcetto, con una delle sue frasi celebri: «un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi ma tre indizi sono una prova». Prova di che cosa, nel caso preso qui in esame? Del fatto che la letteratura italiana è drogata? Del fatto che ormai la coca, nei libri come nei locali, si tira e non si beve, essendo decisamente più figo sballare che ruttare? Del fatto che, fra i tanti revival rimestati dai padroni del vapore nel calderone editoriale (romanzo di formazione, horror metropolitano, memoriale lacrimoso, piccola storia incistata nella Grande Storia...), il più glam, il più up to date, il più easy, in fondo, è sempre il maledettismo light, con pochissime calorie, zero grassi (il grasso fa troppo Ottocento, fa pensare all’epa di Balzac, non all’Epo dei rampanti, induce alla riflessione pacata, non all’azione schizzata), e che immancabilmente induce effetti tutt’altro che indesiderati?
Sì, il sospetto è proprio questo, e non serve arruolare miss Marple per trasformarlo in certezza. Prendiamo, per esempio, lo «Strega». No, non l’amaro che una volta, ai tempi in cui Berta filava, si somministrava alle fanciulle vittime del calo di zuccheri o di autostima per colpa di una delusione amorosa. Intendiamo lo «Strega» nel senso del premio, quello che alza il tasso alcolico dalle parti del Ninfeo di Villa Giulia, fra tartine salmonate e sorrisi siliconati.
Nella cinquina di quest’anno, figurano due libri palesemente drogati. Magari non dopati, non falsi, e sicuramente non bugiardi, ma drogati fino agli occhi, sui quali cioè la polvere bianca si deposita come l’invadente nevischio di fine autunno, inzaccherando le vite dei protagonisti. Sia in Acciaio (Rizzoli) di Silvia Avallone, sia in Hanno tutti ragione (Feltrinelli) di Paolo Sorrentino, la sottile coltre è uno scomodo rifugio, un palliativo sintetico al fallimento.
«Ma davvero qualcuno pensa che a tirare cocaina siano soltanto i figli di papà?», sbottava la Avallone in una recente intervista. No, per carità. Viviamo anche noi in periferia, sappiamo anche noi che la bamba (si chiama ancora così?) non è più soltanto roba da feste in villa, che si è proletarizzata. (Cosa del resto ben nota ai lettori di Walter Siti, da Troppi paradisi a Il contagio). Le ragazzine fragili di via Stalingrado, in Acciaio, la conoscono bene, come la conosce tutta la fauna che le circonda, incluso l’operaio morto sul lavoro per overdose. Tuttavia il libro, che Giuseppe Conte su queste pagine ha definito, da poeta, «carnale e castissimo» non denuncia, bensì constata: non sociologizza, si limita a prendere atto.
La prospettiva cambia in Hanno tutti ragione di Sorrentino. Qui lasciamo il neorealismo in bianco e nero dominato dai fumi dell’acciaieria che permea il romanzo avalloniano ed entriamo di taglio, trasversalmente, diremmo quasi «in soggettiva», per omaggiare l’autore cineasta, nel rutilante e minchionesco mondo di Tony Pagoda, cantante di strada al quale una carriera insperata ma effimera regala una pioggia di lustrini e mondanità, che fa volentieri rima con criminalità. Niente neorealismo, e niente campi lunghi. Piuttosto il declino, tutto interno e grottesco, di un piccolo istrione da strapazzo, con la striscia bianca sempre lì in agguato, a segnare il confine fra routine e diversità.
Ma la «fattura» dello «Strega» 2010 non finisce qui. Tra i cinque finalisti non c’è, ma Un anno fa domani (Instar) di Sebastiano Mondadori, era presente nella dozzina originaria. Eccolo il terzo indizio decisivo, quello che fa la prova, direbbe nonna Agatha. Altro romanzo in cui la droga mette diabolicamente e di soppiatto la coda, a margine di un incidente stradale galeotto, almeno per lo sviluppo della trama.
Ma che cos’è, tutta questa droga ficcata in pagina come un fiore appassito che profuma ancora di proibito? È una moda? Una furba scorciatoia per addomesticare i sentieri impervi della narrazione, per oliare i meccanismi che regolano il sottotesto? O piuttosto una variabile, una X inserita per mandare gambe all’aria i conti del lettore? Diciamo una miscela di tutto ciò, un cocktail psichedelico con dentro di tutto, la tempesta prima della quiete (eterna) che a volte mette la parola «fine» nel peggiore dei modi, con la morte. Accade ai ragazzini di UnHappy Hour (Leone Editore) allineati fra i tavoli dei locali milanesi da Andrea Indini, quasi un loro coetaneo. Il tirare a campare non assurge alla dignità di neo-decadentismo, è semplice noia, incostanza, vuoto pneumatico. E la bolla, come quelle finanziarie, prima o poi scoppia: così, magari, tutto si riduce a un trafiletto di cronaca nera, con tanti saluti all’acerba, ottusa, inconcludente, ostentata estetica dell’eccesso.
Oppure c’è la variante tendente al rosa adottata da Alessandro Fabbri in Il re dell’ultima spiaggia (Bompiani). Carlo Neri non è un eroe negativo, ma uno spacciatore cazzone che forse l’amore saprà redimere.

Dalla Piombino della Avallone alla Napoli di Sorrentino, dalla Milano di Mondadori e di Indini alla Marina di Ravenna di Fabbri, l’Italia è tutta fuori di testa. Una sottile linea bianca collega il salotto buono dello «Strega» ai gradini dove bivaccano i liceali, i cantieri e i quartieri dormitorio. Tanto vale rileggere Cocaina di Pitigrilli.

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