Sotto elezioni i Ds si (ri)scoprono giustizialisti

Pietro Mancini

La richiesta di rinvio a giudizio avanzata nei confronti di Silvio Berlusconi dalla Procura di Milano, nell’ambito dell’ennesima inchiesta su Mediaset, si inquadra nel solito «rito ambrosiano», che ormai dal 1994 caratterizza tutte le campagne elettorali e i momenti politicamente più tesi e delicati. Si torna, insomma all’uso politico della giustizia allo scopo di «alterare il corso delle cose» con gli «imprevisti giudiziari», come ha osservato Sergio Romano sul Corriere di Mieli. E nei Ds si esulta, dopo che sono ormai stati archiviati alcuni timidi tentativi di Fassino di ridimensionare il potere e l’influenza del «partito dei giudici» che fa capo a Luciano Violante. Il capo del Botteghino, dopo aver «assolto» Consorte per la vicenda Unipol, ha già invece «condannato» l’ex ministro finiano Storace.
Nell’aria, insomma, c’è qualcosa di nuovo, anzi, di antico, con la candidatura dell’ex capo del pool Mani Pulite Gerardo D’Ambrosio, e lo spazio concesso alle sue aggressive posizioni contro l’attuale maggioranza sulle riforme della giustizia. Ci troviamo di fronte a un precipitoso, e molto preoccupante, salto del gambero della leadership del Botteghino. E assistiamo al preoccupante riaffacciarsi sul proscenio della «sinistra togata» che manifesta l’intenzione di piegare gli avversari politici ricorrendo a qualche generoso e gradito aiutino dei procuratori, o ex, schierati con i post-comunisti. E D’Ambrosio simboleggia efficacemente la persistente commistione tra la politica della sinistra e l’orientamento delle procure, da sempre sostenuto dal settore giustizialista dell’Unione e da Marco Travaglio. Che di recente, non a caso sull’Unità, ha elogiato il suo ex nemico D’Alema.
In politica, nulla avviene per caso. Se Travaglio è passato dai commenti al vetriolo sulla presunta merchant bank di Palazzo Chigi agli inchini al presidente della Quercia, lo ha fatto perché intende, evidentemente, approvare il ritorno sulla giustizia alla linea seguita nei primi anni ’90 con l’utile supporto dei magistrati schierati. In tale contesto, non è superfluo forse ricordare che uno dei sostituti procuratori milanesi che hanno chiesto il rinvio a giudizio del premier e dell’avvocato londinese David Mills, fu bacchettato duramente nel 1993 da Tonino Di Pietro, il quale ne disapprovò i metodi di conduzione dell’inchiesta a carico di Gabriele Cagliari. «Non si può giocare con la vita degli imputati», protestò Di Pietro all’indomani del suicidio dell’ex presidente socialista dell’Eni nella sua cella del carcere di San Vittore. De Pasquale, infatti, aveva annunciato a Cagliari e al suo avvocato che avrebbe dato parere favorevole alla sua scarcerazione, dopo 5 mesi di detenzione preventiva. Salvo poi cambiare idea e andare al mare, nella natìa Taormina. L’avvocato Mills ha riferito che con lui De Pasquale avrebbe recitato la parte del «poliziotto cattivo», mentre il suo collega, Alfredo Robledo, quella del «poliziotto buono», aggiungendo: «Ho detto quelle cose soltanto per concludere quell’interrogatorio. Sentivo che, se avessi cercato di discutere, mi sarei ritrovato sotto chiave». Per tanti aspetti, insomma, questa vicenda ricorda un film già visto.

Chi si dovrebbe allarmare sono tutti i garantisti veri, non quelli che si dimostrano tali soltanto quando devono difendere i propri amici e compagni, come è successo nella vicenda Unipol. Un caso quasi definitivamente insabbiato negli oscuri meandri di qualche porto delle nebbie.

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