«Spaccio, albanesi e strani clienti Così è cambiata la mia Centrale»

In 36 anni Maria ha visto gli extracomunitari impadronirsi di piazza Duca D’Aosta, che una volta era in mano ai «calafoggiani»

Gianandrea Zagato

Ricorda perfettamente il giorno in cui cominciò a lavorare in quell’angolo di via Benedetto Marcello. Era il giugno del 1970 e trentasei anni dopo, Maria, è sempre lì: dalle dieci alle diciassette, domenica e raffreddori esclusi, puntuale come un’orologio svizzero. Ma Maria che scambia quattro chiacchiere con i residenti è pure una presenza rassicurante. Aggettivo che accompagna la «passeggiata» giornaliera di Maria a due passi dalla Stazione Centrale: Benedetto Marcello-Vitruvio-Settembrini-Scarlatti. Marciapiedi battuti «con piacere e per i soldi» racconta davanti a un cappuccino ma, attenzione, «anche con paura negli ultimi cinque-sei anni». Motivo? Lo sguardo si posa su un gruppo di immigrati romeni o albanesi, «quelli lì si ubriacano e non ragionano nemmeno con i genitali, bisogna girare al largo perché sono sempre pronti alla lite anche per un niente e poi non hanno niente da perdere». Virgolettato che si completa con le ultime immagini di risse e di violenze alla Centrale: «Negli anni Settanta era tutto pulito, quasi inamidato: c’erano le prime scritte sui muri e i “calafoggiani” gestivano piazza Duca d’Aosta» ovvero «controllavano i traffici e non c’era mai nessun problema». Le cronache nere dell’epoca confermano, «anche i clienti erano un’altra cosa: sempre benvestiti, lavati e non tiravano mai sul prezzo» dettaglio dettato al cronista con rimpianto. Ma il passato che interessa è quello delle «strade tranquille, dove quando passava la volante, noi ragazze ci si ritirava dentro un portone o si entrava in un negozio».
Dettaglio che la dice lunga sul clima d’allora: «I clochard in Centrale erano sì e no una decina», «tunisini e moldavi nemmeno l’ombra» e «al lavoro c’erano i napoletani che tiravano a campare col borseggio». Episodi da brevi di nera che, dieci anni dopo, negli Ottanta, s’arricchiscono con il capitolo droga: «Alle fontanelle della Centrale c’era sempre la coda dei tossici che si facevano e si sdraiavano sulle panche di marmo lungo gli scaloni» e «ogni transito in zona Centrale equivaleva a farsi chiedere l’elemosina non una ma dieci, venti volte». Ci scappano anche i morti, ricorda Maria, «overdose su overdose», mentre gli scippi diventano la regola e la polizia corre sempre più spesso e sulle strade adiacenti alla Centrale «arrivano le prime extracomunitarie, sempre disponibili senza preservativo». Spunta anche un prete «un po’ strano, don Ettore, che sta a fianco dei poveri». E il lavoro? «Crisi o no, quello tira sempre: non c’è differenza per il ricco e per il povero, la voglia è sempre voglia».
Ma i «calafoggiani» sono spariti, «in quel bar di piazza Duca d’Aosta arrivano i siciliani prima, gli albanesi dopo e gli africani sempre col borsone pieno di borse contraffatte». Come dire: «Il passato viene sostituito da aggressioni anche in pieno giorno, il coltello diventa un’arma in mano a ragazzini di neppure dieci anni e ci scappa pure il tentato stupro». Racconti con esclamazioni, rabbia e qualche cognome del passato e del presente ma pure con una certezza: «Tornare indietro non si può.

Cancellate e militarizzazione servono a poco, il coprifuoco scatta già alle cinque della sera e quelli là, neri i gialli che siano, sono sempre dietro l’angolo di Benedetto Marcello». Lì, dove Maria non sa smettere di battere anche se ha paura.

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