La Spagna ci ha dato lezione di europeismo

Caro Granzotto, per carità di patria non è stata data con la dolorosa evidenza che meritava, ma la notizia resta, e cioè che la Spagna ci ha superato per reddito pro capite. Se non bastasse, siamo anche tallonati dalla Grecia, fino a ieri da noi considerato un Paese in via di sviluppo o poco ci manca. Ancor più umiliante l’apprendere che mentre il Pil spagnolo non smette di crescere, quello italiano non cessa di decrescere (nel 1995 eravamo ben 23 punti superiori alla Spagna). Come è potuto accadere questo disastro? Cosa non va in noi italiani che pure eravamo la quinta potenza industriale del mondo?


Come è potuto accadere, dice, caro Torre? Semplice: ce la siamo voluta. Vincendo la battaglia (combattuta a cominciare dalla scuola, che infatti sforna falangi di asini) contro la meritocrazia e demonizzando il concetto stesso di competizione (per far posto agli asini). Ostinandoci a non mettere mano a riforme che i tempi non rendevano necessarie, ma imperative (e si ricordi che fino all’altro ieri «riformista» era, per larga parte della Casta, un insulto). Compiacendoci di privilegiare l’astrazione delle idee (sub specie di ideali, di princìpi, valori, ideologie, dottrine eccetera) sulla concretezza delle cose, convinti che la grammatica non solo vale più della pratica, ma la rende superflua. Aggiunga che per diritto ereditario - Roma, il Rinascimento - ci riteniamo il sale della terra, cosa che ci ha fatto perdere il senso della misura (portandoci a credere, ad esempio, che dominiamo i mercati col nostro sublime Made in Italy. Ovvero con generi di abbigliamento). Al nostro estetismo poltrone la Spagna (che pure come carichi ereditari non è esattamente messa male, che pure ebbe a dominare il mondo) contrappone invece un solido pragmatismo. Lo sa, caro Torre, cosa fece Madrid quando caddero i veti all’ingresso della Spagna nella Comunità economica europea? Nei cinque anni che precedettero l’ammissione selezionò i più brillanti neo laureati in materie economiche, in giurisprudenza e in statistica e li spedì a Bruxelles perché si impratichissero non solo della burocrazia comunitaria, ma anche dello «spirito comunitario».
Furono centinaia i giovani che sciamarono in Belgio tra il 1980 e l’86 e fu così che quando le si spalancarono le porte dell’Europa, la Spagna vi piazzò uno stuolo di euroburocrati fatti e finiti che già dal primo giorno sapevano dove mettere le mani per far trarre al proprio Paese ogni possibile vantaggio che la colossale greppia di Bruxelles dispensava. Noi, che c’eravamo dal suo primo vagito, la Cee l’abbiamo sempre snobbata. Veniva considerata una sorta di confino per i funzionari e di cimitero degli elefanti per illustri trombati. A Bruxelles la Spagna badava al sodo e faceva affari, noi la menavamo con gli ideali, col Manifesto di Ventotene e tutte quelle balle lì. Gliene racconto una: ricorda le «quote latte»? Alla chiusura delle trattative un collega chiese al delegato italiano: ministro, l’entità delle nostre quote è inferiore addirittura al consumo interno.

Non è che ci stiamo suicidando? E il ministro: non vorrà mica barattare gli altissimi, condivisi valori dell’europeismo per qualche bidone di latte, spero. E così, in nome degli ideali e dei valori ce la prendemmo, una volta di più, in saccoccia.

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