Sparito il comunismo, restano i comunisti

Nei commenti seguiti all’aneddoto raccontato da Silvio Berlusconi malmenato da un commando comunista mentre affiggeva i manifesti contro il fronte popolare, con estremo fastidio ho notato che la sinistra e gli intellettuali che le reggono la coda hanno pesantemente ironizzato sul fatto che c’è ancora qualcuno che ripete la favola dei comunisti che mangiano i bambini e che ancora parla di comunismo quando invece il comunismo è morto senza lasciare eredi. Ma se il discorso vale per il comunismo perché non è lo stesso per il fascismo? Perché si continua a dire «quello è un fascista» e non si può dire «quello è un comunista» tenendo conto che il fascismo durato venti anni è finito nel 1944 e il comunismo durato più di mezzo secolo è finito nel 1989?
Una inchiesta pubblicata qualche tempo fa da un quotidiano francese rivelava, come se ce ne fosse bisogno, che l’Italia è il Paese dove più e meglio allignano le girouettes, le banderuole, coloro che non ci mettono niente a tourner casaque, a voltar gabbana. L’articolo era corredato da tabelle statistiche (la seconda patria dei voltagabbana risulterebbe essere l’Argentina) e da brevi cenni storici che giustificherebbero il radicarsi, da noi, della prassi di cambiar casacca con disinvoltura. All’uopo veniva citato il noto «Franza o Spagna purché se magna» e qualche verso di Giuseppe Giusti, per la precisione questi: «Tenni, per àncora - D’ogni burrasca, - Da dieci o dodici - Coccarde in tasca" e "Ho celebrato - E troni e popoli, - E paci e guerre; - Luigi, l’Albero, - Pitt, Robespierre, - Napoleone, - Pio sesto e settimo, - Murat, Fra Diavolo, - Il Re Nasone, - Mosca e Marengo; - E me ne tengo». Se Giusti avesse scritto il suo «Brindisi di girella» ai giorni nostri avrebbe sicuramente aggiunto, quali esemplari giravolte, l’antifascismo e l’a-comunismo, che poi sono due «ismi» fratelli germani. Nel primo caso milioni di fascisti che giurarono al Duce fedeltà fino alla morte si dichiararono, a Duce appeso per i piedi a Piazzale Loreto, acerrimi nemici - da sempre, da quando avevano i calzoni corti, vedi l’«Io, Balilla contro» di Piero Citati - della tirannide fascista.
Il secondo caso è più compassionevole: da un giorno all’altro a milioni di comunisti più o meno trinariciuti piombò addosso il muro di Berlino. Poiché il repentino tracollo rese il comunismo merce avariata, essi procedettero a un collettivo salto della quaglia e, oplà!, si ritrovarono «non comunisti». Perfino coloro che di quel partito ebbero per lustri la tessera in tasca (interna, posta all’altezza del cuore), che cadevano in deliquio al cospetto di Togliatti o di Berlinguer e si abboffarono di salamelle ai Festival dell’Unità. Non comunisti ma non anticomunisti. Questo è il punto. Negano d’avervi fatto parte ma guai a denunciarne gli errori e le efferatezze, guai a ricordare, come ha fatto Berlusconi, che i compagni potevano magari randellare quanti non la pensavano come loro. Ed è giustappunto la mancanza dell’«anti», è l’ipocrisia di negare l’appartenenza senza tuttavia procedere alla critica di una ideologia totalitaria che essi abbracciarono con un trasporto quasi mistico la prova provata che da noi il comunismo seguita a vivere (e far danni) nei cervelli di tanti nostri connazionali. Molti, anche di parte liberale, per idiota riguardo al bon ton sociale hanno accettato il loro gioco e si son messi a cantare in coro: «Il comunismo non esiste». Possiamo impedirglielo? No che non possiamo. Ma loro non potranno impedire a noi di aggiungere che se non esiste il comunismo esistono, eccome, i comunisti. Mascherati da buonisti, da progressisti, da società civile, da girotondini, da ulivisti, da palavobisti, da tabucchisti, da luttazzisti, da nani e da ballerine ma, nella testa, sempre e comunque comunisti.

Rossi, insomma.
Paolo Granzotto

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