Marcello D’Orta
Andando contro i miei interessi, consiglio i lettori del Giornale di girare il più velocemente possibile questa pagina, perché il tanfo che tra poco si leverà sarà insopportabile. La materia trattata è infatti la monnezza, una monnezza speciale, per così dire, perché è a momenti per entrare nel Guinness dei primati.
Nei miei (quasi) 54 anni di vita, tutti trascorsi a Napoli, ne ho vista di monnezza, ma la monnezza dell'ottobre 2006 mi pare le superi tutte. Da Pozzuoli al Vesuvio sono 40 i chilometri di rifiuti sparsi per le strade (si calcola intorno alle novemila tonnellate); molte di esse sono diventate a senso unico, perché l'immondizia ne invade una buona parte. La gente, non potendone più brucia i cassonetti, peggiorando la situazione, perché si leva una coltre nera di fumo che rende l'aria irrespirabile. Nelle periferie si organizzano blocchi stradali, esasperando i già esasperati automobilisti. La polizia interviene, e spesso ha la peggio. I topi vanno a nozze in queste situazioni, e infatti alcune scuole sono state chiuse per «invasione di blatte e ratti». Molte fogne sono ancora intasate per la pioggia di alcuni giorni fa, nessuno ha pensato di spurgarle. I cittadini camminano con le mascherine «anti-puzza», i forestieri inciampano nei sacchetti della spazzatura mentre fotografano qualche monumento storico.
Se non scoppia il colera (o la peste di Manzoni) è solo perché San Gennaro ha fatto il miracolo poche settimane fa.
Di chi è la colpa di questo inferno metropolitano? Innanzi tutto della camorra, fenomeno sociale antichissimo, che né la destra né la sinistra sono riuscite ad estirpare. Giorgio Bocca, che dell'inferno partenopeo è diventato conoscitore almeno quanto Dante di quello oltremondano, ha di recente scritto: «I rifiuti si accumulano perché la camorra impedisce di raccoglierli, sabota gli impianti di raccolta, fa scioperare i netturbini (...) corrompe i funzionari dei controlli», e naturalmente gestisce discariche abusive.
La colpa è della gente, di noi napoletani, che dovremmo andare quasi tutti a scuola di educazione civica. Domenico Rea sosteneva che la sporcizia, dalle mie parti, è «uno stato d'animo, una sorta di estasi»: il commerciante, la sera, chiude il negozio e getta il superfluo in strada; il milionario, in Mercedes, appallottola il pacchetto di sigarette vuoto e lo scaglia in strada, obbedendo, il primo come il secondo, a un impulso naturale. Poi ci sono ragioni che potremmo definire politiche. Nei «bassi», la padrona di casa sciacqua e disinfetta il pavimento ogni giorno, perché, trattandosi di un'abitazione a livello di strada, ogni sorta di lombrichi, scarafaggi e zoccole (grossi topi) può entrarvi. Ma lo sporco, la zuzzìmma - come diciamo noi - la butta fuori dell'uscio, perché «la strada è dello Stato e lo Stato va trattato a monnezza. Non merita altro».
La colpa è di una classe politica che da più di un decennio governa la città, e non ha mai saputo gestire la cosiddetta «emergenza rifiuti», che ha fatto partire (ma è partita?) con grave ritardo la raccolta differenziata, che non ha realizzato inceneritori, che ha fatto a scaricabarile (barili di liquami) tra commissari straordinari, prefetti, sindaci, superprocuratori, governatori eccetera, che ha bruciato 800 milioni di euro in dieci anni.
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