Caro , queste mie righe come reazione, anche un po divertita, alla sua risposta al signor Gino che non concorda con il presepe «con tutti personaggi di colore sistemati in un tukul» esposto nella chiesa dei comboniani a Roma. Che i comboniani abbiano un debole per lAfrica è normale: così li ha voluti il loro fondatore, san Daniele Comboni. Il che non fa di quei nostri fratelli i soli «pacifici, onesti, buoni, volenterosi» sulla Terra. Anzi. I comboniani conoscono bene povertà, malattie, ingiustizie, migrazioni forzate, violenze e guerre che lAfrica sta sperimentando. Tuttavia, più che di unAfrica nuova cè bisogno di occhi nuovi per guardare lAfrica. I comboniani ringraziano Dio per aver ricevuto in dono occhi nuovi per guardare lAfrica. Non ignorano le disgrazie del continente, ma non dimenticano che tante disgrazie degli africani hanno radici ben fondate qui da noi, nel nostro modo di rapinarne le ricchezze, per esempio, senza togliere nulla alle responsabilità degli africani stessi, a cominciare dalle dittature militari che uccidono ogni libertà e giù giù fino alla corruzione che contamina lintera società. Gli africani non sono la «razza eletta», ma i comboniani li vorrebbero «eletti» almeno quanto gli altri popoli. Il «motore» del loro amore folle per gli africani, infatti, altri non è che quel Bambino, al centro dei nostri presepi e che, pur sempre intrigandoci perché non smette di farci litigare, è venuto tra noi per insegnarci che siamo tutti fratelli perché figli dello stesso Papà. Avendo frequentato padre Alex per anni, mi fa sorridere vederlo definito «leone» che si batte «per un nuovo cristianesimo tukullocentrico». Rifiutare di attualizzare il presepio nelloggi della storia, quindi il tucùl al posto della grotta, per esempio, ai comboniani sembrerebbe fare solo dellarcheologismo. È proprio del carisma comboniano la scelta preferenziale, e quindi manifestamente di parte, dellAfrica, quella di oggi beninteso, ma solo perché ci pare che lAfrica rimanga ancora il continente più impoverito e abbandonato a se stesso. Bisognerà pur trovare qualcuno che si metta dalla sua parte se vogliamo che si sieda alla tavola comune del condividere mondiale!
Non sa quanto mi rallegri laverla divertita e quanto mi dispiaccia aver dovuto sforbiciare la sua lunga lettera, caro don Boscaini (non per sfruculiare una persona amabile come lei: ma è «fare dellarcheologismo» luso del «don» da parte di un ecclesiastico?). Lei è un missionario comboniano e ha anche diretto il periodico Nigrizia succedendo proprio a «Alex» (che sarebbe, lo dico per i lettori non proprio addentro, don Alessandro Zanotelli). Ovvio pertanto che ami lAfrica «alla follia», però non devo esser certo io a ricordarle che lamore, specie quello folle, se non sempre cieco è comunque causa della perdita di molte diottrie. Questa storia, a esempio, che «le disgrazie degli africani hanno radici ben fondate qui da noi, nel nostro modo di rapinarne le ricchezze», per quanto tempo dovremo sentirla? Dagli anni Sessanta - mezzo secolo, caro don Boscaini - lAfrica è padrona di se stessa. Può contare su due o tre generazioni cresciute e maturate nellindipendenza, sul suo potere di voto allOnu come in altri alti consessi e nessuno le nega di sedere alla «tavola comune del condividere mondiale». Dove uno dà e riceve secondo le sue possibilità e necessità. E non mi dica che lAfrica non riceve. Se poi quanto ricevuto preferisce impegnarlo in armamenti o in arricchimenti delle satrapie, che fare, caro don Boscaini? Sono pur sempre Stati sovrani.
Spesso lAfrica spreca le risorse per la rinascita
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