Accoglienza tiepida alla proiezione stampa di "Una famiglia"

Micaela Ramazzotti nei panni di una donna che partorisce bimbi per poi venderli. Tema vicino alla cronaca e bravi interpreti non salvano il secondo film italiano in concorso

Accoglienza tiepida alla proiezione stampa di "Una famiglia"

"Una famiglia" di Sebastiano Riso è il film italiano presentato oggi in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Protagonisti un fascinoso Patrick Bruel e la sempre brava Micaela Ramazzotti nei panni di una coppia che affronta gravidanze allo scopo di vendere i propri bambini a chi non può averne. Un progetto criminale nato all'interno di una relazione morbosa, in cui l'uomo piega con facilità la volontà della compagna, una creatura fragile che non sembra in grado di badare da sola a se stessa.
La conferenza stampa seguita alla proiezione si è aperta con i ringraziamenti del regista a chi gli ha permesso di poter accedere a quella che ha definito una risorsa indispensabile: le intercettazioni telefoniche relative a indagini sul traffico di bambini.
"In Italia adottare è complicatissimo" denuncia il regista catanese. "Non vieni considerato idoneo se sei single o omosessuale, ma anche le coppie sposate devono soddisfare certi parametri e possono andare incontro ad attese lunghe e snervanti. E' questo a creare una richiesta e un mercato nero".
Il tema è attuale e scabroso, la vetrina del Festival molto prestigiosa ma è il film a lasciare a desiderare. Forse sarebbe stato meglio indagare un fenomeno sommerso tanto grave in forma di documentario, perché la storia al centro di "Una famiglia", purtroppo, in alcune svolte narrative, sembra perdere credibilità. Durante la proiezione stampa, si sono addirittura sentite piccole risate in corrispondenza di un climax drammatico. Colpevoli sono certi problemi di sceneggiatura e non gli attori, per quanto la dolenza espressiva della protagonista sappia di già visto.
A Micaela Ramazzotti viene fatto notare come continui a cimentarsi in madri psicologicamente fragili e disturbate. "Questi ruoli da mater dolorosa", risponde l'attrice, "li ho scelti e rincorsi. Più sono donne disgraziate e vengono da mondi subalterni e più desidero interpretarle, perché voglio dare loro voce. Penso che il cinema dia l'opportunità di difendere chi non ci riesce."
Parlando di Maria, il personaggio del film, dice che "è schiava di qualcosa che non ha deciso ma di cui ha accettato di far parte" e ribadisce "Io sono sempre dalla parte di queste donne. A me non piacciono le eroine".
Il film ha il pregio di non giudicare mai le scelte personali dei suoi personaggi e di invitare lo spettatore, grazie al titolo, a riflettere su cosa si intenda oggi col termine "famiglia".
Sebastiano Riso, però, sembra essere troppo concentrato su una regia autoreferenziale, con inquadrature autoriali e movimenti di macchina arditi. Lentezza e virtuosismi non bastano a regalare allure quando mancano elementi fondamentali come le motivazioni dei personaggi. In realtà si capisce che il comportamento di Maria, figura borderline che "espelle" bambini su ordinazione, sia frutto di una dipendenza totale nei confronti del compagno Vincenzo. E' il movente di quest'ultimo a latitare. Il protagonista maschile non è indigente, all'apparenza è più ambiguo che crudele e lo spettatore non avrà mai indicazioni sulla provenienza dei suoi lampi di cinismo disumano.


Mettere al mondo figli e venderli al miglior offerente tramite una rete di persone senza scrupoli è un abominio dei nostri giorni. Sarebbe stato importante e interessante approfondire il background di chi sceglie di dedicarsi a tali delitti nel proprio quotidiano. L'occasione però sembra essere andata perduta.

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