Cultura e Spettacoli

Addio Leonard Cohen, il Nobel dovevi vincerlo tu

Nell'ultimo brano, la preghiera: "Sono pronto, Signore". Fu poeta vero, uomo sorprendente, musicista originale

Addio Leonard Cohen, il Nobel dovevi vincerlo tu

Sempre in bilico tra santità e dannazione, tra cielo e inferi, tra amore e carnalità, tra realtà e paradosso... 1972. Royal Albert Hall. Londra. L'omino si esibisce in un silenzio quasi doloroso nella sua intensità. «Bastava un colpo di tosse per sentirsi colpevole», scrisse un critico. Poi la musica finisce e il pubblico lo chiama a gran voce per il bis. Così lui ricompare e dice in un soffio: «Non ho più nessuna canzone dentro», e se ne va. Così, puro e disarmante, era Leonard Cohen, il poeta laureato in pessimismo scomparso ieri, all'improvviso, a 82 anni, a meno di un mese dall'uscita del suo ultimo, splendido album You Want It Darker (che contiene la profetica frase: «Signore sono pronto»). Cohen, un artista vero perché contraddittorio, sempre in bilico tra realtà e azzardo visionario, uomo per cui l'arte è l'urgenza del racconto. Ricevette una laurea honoris causa perché per molti era divenuto «simbolo dell'angoscia, dell'alienazione, del dubbio» ma lui spesso ripeteva - spiazzando come al solito tutti -: «Ho sempre pensato di avere un'anima comica». Nasce in Canada come scrittore (all'uscita del romanzo Beautiful Losers il Boston Globe scrive: «James Joyce non è morto. Vive a Montreal e si fa chiamare Cohen») e solo nel 1966 accarezza l'idea di fare il cantautore ispirandosi a Bob Dylan. I due si incontrarono la prima volta nel '69; Cohen lo definì «un Picasso» mentre l'altro rispose che una delle persone in cui gli sarebbe piaciuto trasformarsi, oltre al cantante country Roy Acuff e a Walter Matthau, era proprio Cohen. Negli ambienti colti di Montreal, quando un suo amico professore annunciò agli studenti: «Sapete che Leonard farà il cantautore?» questi risposero in coro: «Ma se non sa cantare?». Ed è proprio la sua voce cupa e recitativa - educata a whiskey e a Gitanes papier maïs - a trasformarlo nello straccivendolo del cuore (per dirla con Yeats) che abbiamo imparato ad amare. Il suo primo album, Songs of L.C. fu una lotta con il produttore che voleva arrangiare riccamente le sue canzoni folk. Cohen si vendicò scrivendo: «Qualcuno presentò gli arrangiamenti alle canzoni. Ne nacque un affetto reciproco ma a causa di una sanguinosa faida venne loro impedito di sposarsi».

«Non ho mai percepito in me delle contraddizioni», diceva beffardo, mentre viveva cercando la spiritualità e l'amore femminile. Ebbe rapporti conflittuali con Joni Mitchell, Nico («la perfetta regina ariana dei ghiacci» per cui perse la testa), Rebecca de Mornay e donne comuni entrate nella storia come Marianne Ihlen (scomparsa lo scorso agosto) conosciuta nel suo lungo soggiorno in Grecia e ispiratrice di classici come So Long Marianne e Bird On a Wire. «La realtà è una donna trasformata dall'orgasmo. Tutto il resto è finzione. Ogni donna che incontro mi stende», è una delle sue massime. Per contro la sua spiritualità è complessa (nasce quando, ragazzo, imparò a ipnotizzare gli amici) se è vero che da sempre «nuota nella radice ebraica» ma per anni nei '90 ha seguito il monaco zen Seasaky Roshi trasferendosi nel suo isolato monastero, dove trova la pace dello spirito e il gusto dell'alcool (spesso fuggì da quel luogo e fu fotografato ad Acapulco, con taglio di capelli buddista e sigarone in mano). Ma la sua spiritualità non va messa in dubbio, è solo un'altra faccia del suo personaggio che si esprime attraverso la commovente introspezione di Hallelujah o attraverso le pagine poetiche della sua «confessione» Libro della misericordia. «Tu che dispensi misericordia all'inferno - scriverà in quelle pagine - unica autorità dei mondi supremi e infimi, fa che la tua collera disperda la bruma in questo luogo senza scopo, dove perfino i miei peccati non colgono il bersaglio». Per lui musica e scrittura sono un unicum, così come nella tradizione giudaica c'è unità tra legge orale e legge scritta... Per questo forse, a ben guardare il suo corpus di testi - quell'essere un neo-Burroughs che spazia dalla Bibbia ai beatnik (Songs From a Room), quel cinico cronista di spirito e materia (I'm Your Man), la coscienza inquieta che lo proietta negli anni Duemila con dischi intensi e ponderati, che non hanno perso nulla della sua forza ieratica, come Old Ideas (2012) o Popular Problems (2014) - avrebbe meritato il Nobel più del silente Bob Dylan.

Introverso e chiuso in se stesso, nel 1970, con capelli lunghi e barba incolta, al festival di Wight fu il ribelle che incitò mezzo milione di hippie ad accendere un fiammifero per illuminare la notte e, viste le poche fiammelle, osservò: «È una grande nazione, ma ancora debole». Dopo quell'avventura qualcuno gli chiese: «Sarai il Mosè di qualcuno?».

«Non so se sarò mai il Mosè di qualcuno, ma potrei essere il loro Leonard».

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