Nel 1944 la Seconda guerra mondiale non era ancora finita. Ma, se non altro, finì la lunga «quarantena» del Premio Nobel per la Letteratura che durava dal '40, anno in cui, in un solo giorno, il 9 aprile, i tedeschi avevano invaso la Danimarca. Così, la scelta politicamente corretta ante litteram degli accademici svedesi cadde proprio su uno scrittore danese, Johannes Vilhelm Jensen. Come a dire: noi ci siamo. Eppure, l'ironia della storia e delle affinità culturali aveva voluto che proprio lì, nella Copenaghen in cui vigeva ancora la legge marziale imposta dai nazisti, anni prima Jensen avesse a lungo frequentato quel Knut Hamsun che lo aveva preceduto nel 1920 sul gradino più alto delle lettere mondiali. Quell'Hamsun che ora continuava a flirtare apertamente con il nazismo, dopo aver persino pubblicato sull'Aftenposten di Oslo un necrologio encomiastico di Adolf Hitler.
Ciò che accomunava Hamsun e Jensen, nordici ma di sangue caldo, era l'attaccamento alla terra e al sangue, alle tradizioni e alla pervicace resistenza del popolo a ogni avversità. Solitario e ombroso il norvegese, più incline alla coralità il danese, a dividerli era il giudizio su un mondo molto lontano dal loro, l'America, che entrambi avevano conosciuto di persona in vari soggiorni. Hamsun guardava con scetticismo, se non con timore, al mito laggiù imperante dell'industrializzazione, mentre Jensen ne era addirittura entusiasta, considerandolo un indizio di quella che chiamò, dal titolo di un suo libro del 1901, Den gotiske renæssance, cioè Il Rinascimento gotico, perché vedeva nell'attivismo statunitense l'erede di quello di origine juto-anglosassone. Jensen insistette così tanto, nel magnificare le caratteristiche di quella razza che considerava antitetica a quelle neolatine e meridionali, da ricevere accuse esplicite di razzismo. Ma a Stoccolma ci passarono volentieri sopra, premiandolo «per la rara forza e fertilità della sua immaginazione poetica, dotata di una curiosità intellettuale e di uno stile sorprendente per la sua freschezza originale», come dissero nella motivazione.
Ad affascinare i giurati, infatti, non erano stati i discutibili scritti sulla storia bio-sociale dell'umanità, bensì, soprattutto, i Racconti dello Himmerland, la regione dei Cimbri di cui parlava Tacito alla fine del primo secolo dopo Cristo in De origine et situ Germanorum, definendoli «oggi un popolo piccolo, ma grande per gloria». Lì infatti era nato Jensen, a Farsø, nel 1873.
Oggi nelle nostre librerie quei racconti sono introvabili. Per leggerli occorre risalire all'ultima edizione Fabbri dell'86. In compenso, uscirà per la prima volta in italiano, il 21 gennaio da Carbonio Editore, un romanzo storico che ne è in pratica lo sviluppo e l'inveramento lungo un ampio spettro temporale, «dalla guerra di Scania alle rivolte nel Dithmarschen, negli ultimi anni del Quattrocento, dal massacro di Stoccolma nel 1520 - che mise definitivamente fine all'Unione di Kalmar, che aveva visto i paesi nordici raccolti per un secolo sotto la stessa corona - alle rivolte contadine iniziate nel 1534», scrive nell'Introduzione il traduttore Bruno Berni. Si tratta di La caduta del re (pagg. 250, euro 16,50), datato 1901, come Il Rinascimento gotico...
Il re in questione è quindi Cristiano II (1481-1559), il quale fu sovrano di Danimarca e Norvegia e, per un anno soltanto, quello fatale a cavallo della mattanza dei borghesi e dei prelati a Stoccolma, anche della Svezia. Ma l'autentico re della vicenda non è lui, bensì un personaggio forgiato dalla fantasia di Jensen e nel quale confluiscono tutti gli ardori e le debolezze, i bassi istinti e gli elevati principî, le angosce e gli slanci ideali di un tipo molto scespiriano nel suo essere, sotto il medesimo rispetto, singolarissimo e normalissimo. Il Nostro si chiama Mikkel Thøgersen. Lo incontriamo, studente universitario svogliato e gaudente, sdraiato nel fieno che un contadino sta portando con il suo carro. E lo lasciamo, una vita dopo, vecchio, spento nell'anima e nel corpo, in una cella del castello di Sønderborg. La cella che divide proprio con il suo re.
Era stato, rivelò in seguito lo stesso Jensen, un quadro del 1871 di Carl Bloch a fornirgli lo spunto per il romanzo. Vi si vede Cristiano, prigioniero di nuovi e vecchi nemici, appoggiato a un tavolo nella penombra della misera stanza in cui la luce entra, quasi furtiva, dall'alto. E, alla sua destra, un anziano canuto, nell'atto di porgergli una sedia. Quel servitore-amico sarebbe diventato Mikkel Thøgersen.
Il re, invece, lo incontriamo, sedicenne, durante una notte di bagordi con compagni poco raccomandabili. Mikkel lo riconosce. «E quel principe Cristiano che vide lì non lo dimenticò mai più. Stava in piedi a gambe un po' allargate, indossava delle calze biancoverdi e un paio di poulaine rosse, dalla sua posizione lo vedeva di tre quarti; sulle spalle e sul petto gli scendeva una catena d'oro. Nella mano sinistra teneva un grappolo di uva sultanina dal quale di tanto in tanto prendeva un chicco con la mano destra per mangiarlo».
È una di quelle notti dolci e stellate a segnare il destino di Mikkel. Questione di donne, ovviamente, e di tradimenti veri o presunti, e di gelosie incrociate a quelle di Otte Iversen, un vecchio amico che ora si è messo dalla parte dei «lanzichenecchi». Così, intraprendendo il mestiere delle armi, il protagonista ne conosce gli orrori e i tremori, i pentimenti e i sentimenti che, nati in purezza, scivolano subito nel fango dell'abiezione. Tra figli illegittimi e nipoti disconosciuti, la figura più tragica è quella di Carolus, il mostruoso frutto dei lombi del sovrano, custodito dal medico ciarlatano Zacharias, con il quale finirà al rogo.
Infine, così cala il sipario sulla caduta del re e del suo uomo-ombra: « Ed eccoli lì, i due conquistatori! Re Cristiano, che era entrato in scena come l'incarnazione dell'ardente impazienza, con progetti grandiosi, ed era diventato l'artefice della storia mancata della Danimarca.
Mikkel Thøgersen, che col suo orgoglio assoluto e la sua brama di ogni cosa era diventato il capostipite di un lignaggio assai esteso e immaginario. Erano in cella insieme, fondatori entrambi di una dinastia del nulla».
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