Cultura e Spettacoli

Antonello da Messina e la magia dell'arte apolide

Le opere del siciliano si sottraggono a ogni geolocalizzazione. E sono spudoratamente vere

Antonello da Messina e la magia dell'arte apolide

È come assistere all'epifania della pittura italiana e, nel contempo, tornare al momento fondativo della moderna storia dell'arte. La mostra che Milano dedica ad Antonello da Messina (1430-1479), da oggi al 2 giugno, è di certo la più importante ricognizione monografica mai dedicata nel nostro Paese al grande pittore siciliano, con più della metà delle opere autografe sopravvissute (19, in un corpus decimato nei terremoti che hanno devastato la città dell'artista). Ma è anche molto di più, grazie all'intuizione di esporre accanto ai capolavori i disegni che ne ricavò Giovanni Battista Cavalcaselle, reduce mazziniano dei moti del 1848, e poi infaticabile viaggiatore che aveva riempito interi bauli di schizzi e disegni, sino a ricostruire puntualmente il primo catalogo di Antonello. Roberto Longhi lo definiva «un rabdomante della storia dell'arte», e difatti il Cavalcaselle fu il primo a intuire, dopo i visionari appunti del Lanzi, la centralità nello sviluppo della pittura italiana di questo «ciciliano» per certi versi tuttora immerso nel mistero, nel suo intreccio inestricabile tra sensibilità nordica per la rappresentazione lenticolare della realtà e applicazione delle acquisizione geometriche nella resa dello spazio.

A fronte delle acquisizioni degli studi, la straordinaria qualità della pittura di Antonello resta infatti di complicatissima decifrazione. Si prenda il San Girolamo nello studio, prestito della National Gallery di Londra, che nella disposizione della mostra milanese precorre i tempi, sistemato com'è all'inizio del percorso, mentre in realtà è datato 1475, quattro anni prima della morte. Il pavimento ricorda quello della Madonna del cancelliere Nicolas Rolin di Jan Van Eyck, e per spiegare questa ripresa quasi calligrafica si è provato ad accostare il messinese a Petrus Christus, allievo del fiammingo. E però i raggi del sole che illuminano la stanza del santo coincidono con le linee prospettiche, indice di una cultura mutuata dalla conoscenza di Piero della Francesca, forse con la mediazione iniziale del camerte Girolamo di Giovanni. Oppure la Crocifissione al Museo rumeno di Sibiu, che mise in scacco lo stesso Longhi, sino al punto di fargli supporre che la parte inferiore fosse stata dipinta nella fase giovanile, costruita secondo il modo borgognone appreso a Napoli da Colantonio, e quella superiore sembrasse invece già influenzata da Domenico Veneziano, e dunque ultimata molti anni più tardi.

Antonello è tutto in questi apparenti anacronismi, nel carattere strenuamente apolide della sua pittura, che resiste a ogni tentativo di geolocalizzazione. Come poteva aver visto tutto quello che poi ha inserito nei suoi dipinti? Da dove vengono i ritratti, che per la prima volta alle nostre latitudini rinunciano al profilo da medaglia, e propongono invece il personaggio di busto, tagliato sotto le spalle, con una rotazione del capo verso destra che porta gli occhi dall'altra parte, a guardare direttamente lo spettatore, sul lato del viso in ombra? Se aggiungiamo l'inserzione sistematica del cartiglio sul parapetto in primo piano, che parrebbe venire dalla bottega padovana dello Squarcione, abbiamo quello che diventerà presto un canone. Pescando nel portfolio di ritrattista di un Memling, o dello stesso Petrus Christus, potremmo incappare in qualcosa di simile. E però la capacità di caratterizzazione psicologica di Antonello è tutt'altra cosa, e arriva in qualche caso all'insinuazione, come nel celebrato Ritratto d'uomo del Museo Mandralisca di Cefalù, attorno a cui Vincenzo Consolo ricostruì la tradizione locale del Sorriso dell'ignoto marinaio, smontata severamente dal Longhi. Per tacere dell'olio su pioppo della Collezione Trivulzio, di cui Vittorio Sgarbi (che lo volle a Torino in una mostra sul Male), scrisse che era di fatto il «traumatizzante ritratto di un mafioso».

Questa spudorata quantità di verità, governata a stento dalla prospettiva, spunta da tutte le parti nell'opera di Antonello. È nell'ombra che una gamba proietta sull'altra nel Cristo morto sorretto dagli angeli del Museo Correr, quello dalle teste abrase e, con una ricchezza descrittiva che avrebbe lasciato di stucco anche Caravaggio, nella tavoletta dell'Ecce Homo del Collegio Alberoni di Piacenza, straordinariamente moderno, nell'attenzione con cui è resa la corda del cappio, la capigliatura, il trattamento luministico del volto. E a chi stigmatizza il prestito dell'Annunciata di Palermo, assimilandola ad altre pleonastiche ostensioni di capolavori, andrebbe ricordato che due secoli prima de Las Meninas di Velázquez, questo piccolo olio è una vera e propria «teologia della pittura». Maria è infatti ritratta per la prima volta senza l'angelo, nell'attimo in cui, interrotta la lettura, allunga la mano verso un interlocutore, che forse è solo nella sua mente, e certamente coincide con la posizione dello spettatore. Ancora una volta prima di tutti, Antonello prova qui a farci scivolare dentro al dipinto.

Senza trascinarci, col semplice gesto della Vergine: è questo il suo annuncio.

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