Cultura e Spettacoli

Artigiano, artista, filosofo. Lo storico secondo Durant

La sua colossale opera "The Story of Civilization" impose un nuovo modo di raccontare il passato

Artigiano, artista, filosofo. Lo storico secondo Durant

L'idea di scrivere la celeberrima e fortunatissima The Story of Civilization, nota in italiano col titolo Storia della civiltà, l'allora ventisettenne William James Durant (1885-1981) l'ebbe nel 1912 a Damasco, riflettendo, ammalato in ospedale, sull'opera di un celebre storico inglese dell'Ottocento, Henry Thomas Buckle, protagonista della reazione alla storiografia «romantica» allora in voga. Questi, un liberale sensibile alle suggestioni metodologiche delle scienze naturali e dei sistemi sociologici di derivazione positivistica, aveva progettano una imponente History of Civilization in England che avrebbe dovuto essere articolata in quattordici volumi. A causa dell'improvvisa morte nel 1862, proprio a Damasco, però, ne uscirono soltanto i primi due, introduttivi, che ebbero una certa eco per il tono polemico nei confronti della storiografia dominante.

Quando ne lesse l'opera, Durant, che aveva avuto una formazione culturale classica di taglio umanistico, insegnava alla Ferrer Modern School, una scuola «libertaria» ispirata alla «pedagogia anarchica» di Francisco Ferrer. Proprio qui, per inciso, si innamorò di una studentessa quindicenne, Chaya Kaufman, da lui soprannominata Ariel, la quale, oltre a diventarne la moglie, ne sarebbe stata fedele e insostituibile collaboratrice. Per molti anni, tuttavia, a Durant non fu possibile metter mano al progetto e i suoi primi lavori furono di argomento filosofico. Nel 1926, per esempio, uscì The Story of Philosophy: The Lives and Opinions of the Greater Philosophers, che conteneva suggestivi profili di una decina di pensatori, da Platone a Nietzsche, con l'aggiunta, nei due ultimi capitoli, di filosofi europei (Henri Bergson, Benedetto Croce, Bertrand Russell) e americani (George Santayana, William James, John Dewey) più o meno contemporanei. Il successo dell'opera fu talmente clamoroso e remunerativo che Durant poté lasciare il lavoro di docente e dedicarsi finalmente alla stesura degli undici volumi di The Story of Civilization, apparsi fra il 1935 e il 1975: fu coadiuvato dalla moglie la quale, a partire dal 1960, firmò l'opera come coautrice.

Nato in una cittadina del Massachussets da una famiglia di origine franco-canadese, Durant, per il quale la madre sognava una carriera ecclesiastica, aveva studiato filosofia sotto la guida di John Dewey e di Frederick James Woodbridge e si era avvicinato, all'indomani della Grande Guerra, alle idee di un socialismo umanitario e, per certi versi, utopistico. Si era formato e cresciuto, quindi, in un particolare ambiente culturale imbevuto di quel pragmatismo e di quel realismo tipicamente americani, che - combinati con i tentativi di interpretazione generale della storia proposti dai grandi sistemi sociologici ottocenteschi come quelli di Henri de Saint-Simon e di Auguste Comte - avrebbero trovato modo di esprimersi nella realizzazione di The Story of Civilization.

L'opera dello studioso statunitense, al di là del successo planetario che le arrise e che da solo meriterebbe di essere studiato come fenomeno editoriale, ebbe grande fortuna anche in Italia, dove fu pubblicata e ristampata più volte da Mondadori, a partire dalla metà degli anni '50, e fu poi ripresa, all'inizio degli anni '90 da una piccola e coraggiosa casa editrice piemontese, Araba Fenice, che pensò di arricchirla con molti volumi integrativi di documenti. Essa finì, in tal modo, per essere presente nella maggior parte delle biblioteche familiari della piccola e media borghesia italiana accompagnando, nei primi decenni del dopoguerra, il processo di acculturazione del Paese, parallelamente alla ripresa post-bellica e al miracolo economico. In Italia, peraltro, c'erano le premesse per un successo del genere. Non a caso, fra il 1838 e il 1846, il cattolico liberale Cesare Cantù aveva pubblicato presso l'editore Pomba una Storia universale in 35 volumi, tradotta in più lingue, che si proponeva di raccontare in maniera sintetica e cronologica gli avvenimenti mondiali più significativi e i «progressi dell'incivilimento».

Tuttavia, a differenza di quella di Cantù - e di altre poche consimili opere, a cominciare dai volumi della Storia universale di Corrado Barbagallo, pubblicati negli anni '30 e poi nella prima metà degli anni '50 - la Storia della civiltà di Durant aveva taglio e caratteristiche particolari. In primo luogo, non era quella che viene generalmente definita «opera divulgativa», quasi una sorta di riassunto degli avvenimenti prevalentemente storico-politici. Per Durant, infatti, la storiografia non era una scienza: essa, scriveva, «può essere soltanto una forma di artigianato, di arte e di filosofia: artigianato nello scoprire i fatti, arte nello stabilire un ordine significativo nel caos dei dati, filosofia nel cercarvi la giusta prospettiva e spiegazione». Di qui discendeva la sua polemica nei confronti dell'«usuale modo di scrivere la storia in sezioni longitudinali separate» e cioè storia economica, storia politica, storia della scienza, storia della musica, storia dell'arte e via dicendo. Questo metodo, a suo dire, offendeva «l'unità della vita umana» perché una «storia ideale» della civiltà «dovrebbe essere scritta procedendo tanto parallelamente quanto longitudinalmente, tanto sinteticamente quanto analiticamente» e «dovrebbe sforzarsi di rappresentare in ogni periodo la cultura di un popolo nella sua totalità, istituzioni, imprese e modi di vita». Alla fine, come si vede, quella di Durant era una concezione per alcuni aspetti davvero anticipatrice di quei filoni storiografici che - penso, pur con tutti i necessari distinguo, alla scuola francese delle Annales - che propongono una storia non più solo «narrativa» ma a più dimensioni.

La sua Storia della civiltà finisce così per presentarsi come un grandissimo affresco in cui le grandi personalità, a cominciare dai filosofi per finire con gli statisti, si trovano accanto alle persone più semplici e tutti contribuiscono a definire istituzioni, problemi, modi di essere e comportarsi che si sviluppano (e si ripropongono) nel tempo. Ci sono, nell'opera di Durant, tanto il senso della trasmissione di «eredità» culturali che vengono da lontano, quanto la consapevolezza dei processi che definiscono la dinamica dell'ascesa e decadenza delle nazioni. In proposito, mi sembra che questa sua concezione possa essere ravvicinata a quella del grande storico inglese Arnold J. Toynbee, il grande studioso della storia comparata delle civiltà.

Una volta Charlie Chaplin, che ne era convinto estimatore, definì «un entusiasta» Durant, e aggiunse che questi «per intossicarsi non aveva bisogno di stimolanti diversi dalla vita». Letta in controluce, la battuta di Chaplin mette in evidenza una caratteristica della personalità di Durant, il suo ottimismo. Ma suggerisce anche una chiave di lettura per un'opera da tempo dimenticata che meriterebbe di essere riproposta. I Durant, Will e Ariel, morirono 40 anni fa, a distanza di pochi giorni l'uno dall'altra, quasi a simbolica chiusura di una esistenza vissuta insieme.

Con amore e generosità.

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