Salvatore Silvano Nigro, 70 anni emeriti, critico e italianista, è di Carlentini, provincia di Siracusa. Vive a Catania. Dopo una luminosa carriera accademica tra Parigi, Yale e Milano, quest'anno siede sulla prestigiosa «cattedra De Sanctis» del Politecnico di Zurigo dove tiene un corso sulla cultura del Barocco. È stato per vent'anni, dopo la morte di Leonardo Sciascia, il braccio destro di Elvira Sellerio, e ancora oggi è consulente della casa editrice palermitana: ha firmato più di 50 risvolti di copertina («mi piace dire che sono piccoli racconti critici») di Andrea Camilleri. Ha vinto il Premio Brancati nel 1996 e fa parte della giuria del Premio Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Solo per dire quali titoli e competenze può vantare per spiegarci il più duraturo successo letterario nazionale dell'ultimo decennio, quello siciliano. Uno studio neppure recente, quindi numericamente in difetto, dice che tra 2009 e 2014 sono usciti 125 titoli ambientati in Sicilia, per la maggior parte di scrittori siciliani, dalla A della catanese Emanuela E. Abbadessa con Capo Scirocco, alla V del palermitano Giorgio Vasta con Il tempo materiale. Gli editor dei grandi marchi editoriali - da Rizzoli a Feltrinelli, cioè da Roberto Andò (Palermo, 1959) a Giuseppe Rizzo (Agrigento, 1983) - è da tempo che drenano un bacino letterario siciliano inesauribile. Andrea Camilleri continua incupatissimo a dominare le classiche di vendita. E il suo Montalbano anche lo share televisivo. Il rinascimento siciliano non è una fiction.
Professor Nigro, esiste ancora una vera «letteratura siciliana»?
«È esistita per molto tempo, fino a quando in Sicilia c'è stato uno scrittore come Sciascia e a Palermo un giornale come L'Ora, che fu uno straordinario luogo di aggregazione culturale. Allora c'era un gruppo compatto di scrittori, come Consolo, Bufalino o Sebastiano Addamo, o come Giuliana Saladino, con le sue inchieste sulla condizione femminile e col suo Romanzo civile, ma anche di fotografi, come Ferdinando Scianna, uno straordinario narratore per immagini... Poi, con la morte di Sciascia e la chiusura de L'Ora, la linea siciliana si è dissolta».
E cosa è rimasto?
«Un'altra linea, nazionale, e non più regionale. Prima c'era continuità, aggregazione, collaborazione. Dopo, tra gli scrittori di ultima generazione, ognuno se ne è andato - come dire? - per i fatti suoi: chi seguendo una corrente che arriva da Pirandello, chi una che parte da Brancati, chi manifestando un'impronta barocca».
Nomi della linea-Pirandello?
«Uno, cento, nessuno. Gli scrittori di romanzi costruiti sugli sdoppiamenti di personalità, sul gioco delle parti di chi compare e chi scompare. Come il palermitano Roberto Alajmo».
E la linea-Brancati?
«È quella degli autori che esaltano l'elemento erotico. Come Silvana La Spina, sicilianissima per origini e vocazione».
Nomi della linea barocca?
«Pietrangelo Buttafuoco, scrittore spesso contrastato per pregiudizi ideologici ma che a me piace molto. Le storie che sceglie non sono di per sé esclusivamente siciliane, ma è sicilianissimo il modo in cui le racconta, recuperando quel ritmo tipico degli antichi contastorie - mi raccomando contastorie, non cantastorie - per cui il senso della parola è legato al suono prima ancora che al significato. Una cosa che era già in Consolo, per dire. Ancora fino a dieci anni fa qui a Catania si potevano vedere ai giardinetti pubblici gruppi di anziani e bambini che stavano ad ascoltare i contastorie che recitavano picchiando il bastone per terra, così da dare il tempo al racconto. E Buttafuoco non fa forse la stessa cosa quando in tv recita la sua rubrica Olì Olà? Una parola che non significa nulla, puro suono, ma che trasmette un messaggio forte».
Altri autori siciliani barocchi?
«Tanti, ognuno con una propria sfumatura. Silvana Grasso: un'ottima scrittrice che sviluppa il barocco implicito nella lingua siciliana. Giosuè Calaciura: autore fortemente carnale nei cui libri esplode l'elemento barocco. Oppure Maria Attanasio, poetessa intimamente barocca. O Ottavio Cappellani, catanese...».
Del quale sta per uscire da Sem Sicilian Comedi, seguito del fortunatissimo Sicilian Tragedi...
«La sua è la vena più stralunata e moderna del barocco, a volte iperrealista, a volte surrealista».
La prevalenza del barocco.
«Il barocco è ovunque in Sicilia. È quasi naturale. Pensi a Noto, Scicli, Ragusa... Non a caso è lo scenario dei romanzi di Camilleri. Soprattutto il barocco è nella lingua. Nell'approfondimento metaforico della scrittura. I giochi illusionistici della scrittura, la teatralità della scrittura...».
Parliamo del romanzo storico.
«Se un siciliano sceglie di dedicarsi al romanzo storico, può fare solo due scelte. O si appoggia a Tomasi di Lampedusa, o a Federico De Roberto. La prima è una via piacevole, la seconda tremenda. Entrambi legano la Storia alla politica e al trasformismo. Ma Tomasi di Lampedusa è stendhaliano. Il secondo mostruoso. Infatti I Viceré è un romanzo più difficile ma più profondo del Gattopardo. E se vogliamo far navigare il romanzo storico nella letteratura siciliana contemporanea, Sebastiano Addamo o Giorgio Vasta si pongono in questo secondo filone».
Parliamo del romanzo giallo.
«In Sicilia è stato sdoganato da Sciascia, che scriveva romanzi di ambientazione giudiziaria ma che sono quasi dei gialli. E Sciascia non solo ha sdoganato il genere, l'ha anche incoraggiato. Il risultato è che Sellerio pubblica molti autori di gialli che non fanno semplice narrativa di consumo, ma qualcosa di più, di altro».
Esempi?
«Tutti quelli che non sono diventati inutili epigoni di Camilleri. Come Santo Piazzese. O come Gaetano Savatteri, nato a Milano, ma da genitori originari di Racalmuto, il paese di Sciascia... Tutti giallisti con una propria fisionomia letteraria, tutti con un diverso motivo di successo».
Il motivo del successo di Camilleri?
«La lingua, ovviamente. Sciascia, che era suo amico ma non lo stimava, gli diceva: Ma come puoi pretendere di farti leggere con la lingua che usi?. E invece è stata proprio quella lingua a regalargli il successo, sia in Italia, prima a Milano e al Nord e solo dopo al Sud, sia all'estero. E la cosa curiosa è che si tratta di una lingua che non esiste, falsa. Quello di Camilleri non è siciliano. È una lingua reinventata su base dialettale. E da dove arriva il modello? Dal romanzo di Sciascia Il Consiglio d'Egitto, dove c'è un falsario che si inventa una lingua per dire ciò che non si può dire, il quale si serve di un aiutante maltese che si chiama... Sa come si chiama?».
No.
«Padre Camilleri. E non le fa venire in mente niente una lingua inventata per dire cose che non si possono dire?».
No.
«Ha visto il penultimo episodio della serie tv di Montalbano, quella in cui si parla di uno degli ultimi tabù della nostra civiltà, l'incesto? Crede che la Rai avrebbe mandato in onda una storia simile se fosse stata raccontata in italiano? Invece è passata quasi inosservata perché sembrava inventata. Da una lingua che non esiste... Le storie di Camilleri piacciono non per i temi particolarmente accattivanti, ma per la lingua vigatese in cui sono narrate. Fenomeno non nuovo in letteratura per altro...».
Gadda?
«Secondo lei, se Gadda avesse scritto il Pasticciaccio in italiano invece che in una lingua che mescola tanti dialetti, avrebbe avuto la stessa fortuna?».
Il segreto è tutto è nella lingua.
«Una lezione che arriva da Pirandello. Il quale portò il dialetto siciliano nel teatro. E dal quale, attraverso un ramo laterale, discende la famiglia... Sa di chi?».
No.
«Di Camilleri. Come vede alla fine tutti i fili si allacciano. La Sicilia è grande. Ma molto piccola».
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