Bukowski, il ribelle che lisciava il pelo ai gatti e alla poesia

Oltre ad alcol e donne, amava i felini: ne ebbe fino a nove e li definiva suoi maestri

Bukowski, il ribelle che lisciava il pelo ai gatti e alla poesia

"Io/ non amo le poesie tenere sui/ gatti/ ma ne ho scritta una/ comunque". Perché Charles Bukowski non amava le parole tenere, ma i gatti sì. Le donne, l'alcol, e i felini: ne aveva sempre qualcuno in casa, magari due, magari quattro, a un certo punto perfino nove. "I randagi continuano ad arrivare e non ce la sentiamo di mandarli via", scriveva in una lettera a Louis Webb, a proposito di sé e della moglie Linda Lee. "Dobbiamo smetterla però. 'Sti maledetti gatti mi svegliano presto alla mattina perché vogliono uscire... Ma sono animali meravigliosi e bellissimi. Matti scatenati". Ovvio che non smettesse. Ovvio che non potesse non amarli, ammirarli: "Sono i miei maestri" dichiara negli ultimi due versi de I miei gatti, che insieme a una serie di poesie e stralci di saggi e lettere si possono leggere in una raccolta di scritti (in gran parte inediti, o pubblicati su piccole riviste a tiratura limitata; tutti riproposti in una versione fedele ai manoscritti originali), Sui gatti appunto, che ora arriva in Italia pubblicata da Guanda (pagg. 158, euro 14).

I gatti sono esempi, inarrivabili per definizione: "Un gatto è semplicemente se stesso. Ecco perché quando cattura il povero uccello, non lo molla più". Il gatto "è la bellezza del diavolo", i gatti di Bukowski hanno occhi gialli, malvagi, qualche volta sono gialli loro stessi (c'è una gatta "gialla come il sole", che lo aspetta sempre su una scala antincendio per strusciarsi sulla sua gamba); sono gatti picchiatori e picchiati, gatti che si feriscono e finiscono dal veterinario, spietati come da loro natura: "Un gatto ti mangerà quando morirai. Non importa quanto abbiate vissuto insieme" scrive in una lettera a Sheri Martinelli, nel dicembre del 1960. Però Bukowski ci viveva eccome e scriveva con loro accanto, o sulle spalle, o sui tasti, nelle sue nottate alcoliche, coi mici che "corrono sui fogli dattiloscritti sparsi/ lasciandoli spiegazzati e con piccoli buchi sulla / carta.// poi/ saltano dentro allo scatolone delle lettere che ricevo dalla/ gente/ ma non rispondono, gli ho insegnato/ bene" (Una poesia genuina per te). Il rischio di scivolare nel cliché dello scrittore (auto)distruttivo che diventa romantico solo quando parla dei suoi animali è qualcosa che non lo preoccupa, anzi lo diverte, infatti nel seguito della poesia si legge: "mio dio diranno, Chinaski scrive solo/ di gatti!/ mio dio dicevano prima, Chinaski scrive solo/ di puttane!". Accontentare il lettore è peccato, quasi come lo sarebbe per il gatto lisciare il suo proprietario, del resto "i lamentosi si lamenteranno e continueranno a comperare i miei/ libri: gli piace proprio come riesco a farli / incazzare". Lo stesso accade per i gatti, meno si fanno piacere, più piacciono: "e a quei dannati gatti/ non importa/ proprio/ niente di niente./ E/ se gliene importasse/ non mi piacerebbero / neanche/ un po':/ le cose cominciano a perdere il loro/ valore naturale/ quando si avvicinano/ alle faccende/ umane" (Un gatto è un gatto è un gatto è un gatto).

I gatti di Bukowski non sono umani, non vivono faccende umane, forse solo troppo umane: sono gatti bukowskiani, come Butch Van Gogh Artaud Bukowski, che lui ha ereditato, un "vecchio gatto enorme/ grosso come un cane di media taglia/ malvagio/ occhi gialli/ vecchio e furiosamente forte" (Dono); come il Manx, bianco, con l'occhio strabico, la lingua penzoloni di lato, che corre sghembo e che ti capita davanti agli occhi proprio mentre pensi, e senti, "che siamo/ strani, deformi e che non andiamo bene/ da nessuna parte qui...". Il Manx è un animale primordiale, una forza totale: "Un ladro internazionale ha investito il mio gatto preferito lunedì... dai raggi X si è visto che qualcuno in passato gli ha pure sparato". Qualcun altro gli aveva anche mozzato la coda. Ma "è bellissimo, ha cervello". "Questo gatto sono io", dice Bukowski al veterinario: "È arrivato alla mia porta che stava morendo di fame. Sapeva benissimo dove venire. Tutti e due siamo barboni sopravvissuti alla strada".

Bukowski, che parla male di tutto e tutti (ed è bollato di volta in volta come misogino, omofobo, sporcaccione...) può parlare di gatti malvagi e che mangiano i padroni, senza finire bollato come gattofobo, anzi si può fare fotografare col gatto in braccio, durante le interviste, ed esibirlo come una risposta molto più esauriente del bla bla letterario ("lei/ dice di essere stato influenzato da Céline...// no/ sollevo il gatto davanti a loro, da quello che succede, da/ cose così, così, così!...", La storia di un bastardo figlio di puttana). I gatti, Bukowski vorrebbe chiamarli Ezra, Turgenev, Fëdor, ma lascia che i nomi li scelga la moglie e così diventano Ting, Ding, Beeker, Beauty... "manco un Tolstoj/ in tutto 'sto cazzo di/ gruppo" (La nostra gang).

Il gatto è la terapia, come la scrittura: "Quando sono dilaniato dalle forze, allora guardo uno dei miei gatti... Anche scrivere è il mio gatto. Scrivere mi permette di affrontare le cose". Ed è un sogno: "Nella mia prossima vita voglio essere un gatto. Per dormire 20 ore al giorno e aspettare di essere nutrito".

Ma lui, Bukowski, non è un gatto e lo sa: lui è stato "rammollito e sbatacchiato come un topo in bocca a un gatto frenetico: la vita". È un uccellino nelle sue fauci. Non può fare come il gatto, che "passa e si scrolla Shakespeare/ dalla schiena". Lui è Bukowski, e un gatto è un gatto è un gatto è un gatto.

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