Centotré anni, 90 film, un mito. E lo "schiavo" vinse Hollywood

Addio a un'icona del cinema. Lavorò con i grandi registi Ebbe le donne più belle, una vita da divo e un figlio star

Centotré anni, 90 film, un mito. E lo "schiavo" vinse Hollywood

La sua stessa vita sembra un film hollywoodiano. E adesso che l'ultimo mostro sacro della Settima Arte, Kirk Douglas, è morto, mercoledì, nella sua villa di Beverly Hills, all'età di 103 anni, tutta Hollywood è in lutto. «Per il mondo era una leggenda, un attore dell'epoca d'oro del cinema, ma per me e per i miei fratelli, Joel e Peter, era semplicemente papà», ha scritto su Facebook Michael Douglas, figlio prediletto del grande Kirk e attore di spessore, a sua volta.

Considerato uno dei più prestigiosi interpreti del cinema americano, Kirk, nato il 9 dicembre 1916 a New York, era figlio di immigrati ebrei, originari di Tchavoussy, in Bielorussia: il vero nome di «Spartacus», infatti, era Issur Danielovitch Demsky, poi cambiato in Izzy Demsky e, infine, in Kirk Douglas, per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Ma quando per Kirk arrivarono fama e soldi, battezzò la sua casa di produzione con il nome di sua madre: Bryna. Una donna che, mentre moriva, lo fissò negli occhi, rassicurandolo: «Càpita a tutti».

L'ultimo titano del grande schermo, superati i cent'anni e i decenni fondativi d'un cinema che non torna, ci lascia un'antologia del XX secolo, sia nei suoi memorabili film, sia in vari libri autobiografici. Col suo compresso fisico da pugile - i detrattori lo definivano «Ercole con l'ernia» -, la mascella creata per incassare pugni, il profilo aquilino e quella voce ruvida, l'interprete era bello a modo suo. E cattivo, quando si fece notare, nel 1946, al debutto con Barbara Stanwick nel mélo Lo strano amore di Marta Ivers. In un secondo momento, egli avrebbe rivelato che la diva, più vecchia di lui all'epoca delle riprese, lo «aveva fatto diventare uomo». Sul set, o fuori dal set, c'era la fila per conoscerlo biblicamente: Marlene Dietrich gli preparava una minestrina, prima dell'amore; Joan Crawford si toglieva tutto, appena chiusa la porta della villa di lei, mentre una hostess, alta e bionda, lo implorava di sculacciarla, se lei gridava «I'm nazi!». Niente di più invitante per Kirk, figlio d'uno straccivendolo ebreo russo, finito nel titolo della sua autobiografia The Ragman's Son (2001), il rivendugliolo analfabeta Herschel Danielovich, che a casa parlava soltanto yiddish e che, nel '61, fu costretto dai pogrom russi a lasciare la Bielorussia, per finire nel sobborgo newyorchese di Amsterdam: da un ghetto all'altro, insomma, com'è nella storia del popolo ebraico.

Ma non solo le donne facevano la fila per Kirk: anche i registi più famosi - Billy Wilder, Vincente Minnelli, Stanley Kubrick, Brian De Palma - se lo sono conteso per oltre 70 anni di carriera. Dal 1946 al 2008, infatti, quattro generazioni di spettatori hanno apprezzato il talento recitativo di quest'attore sopravvissuto a ogni assalto della morte. Durante la Seconda Guerra mondiale, arruolato in Marina, ricavandone una decorazione, aveva schivato un incidente mortale in elicottero, ripetutosi nel 1991. Nel 1996, aveva superato un infarto e un'operazione alle ginocchia. All'età di 80 anni, un ictus lo aveva privato della parola. «Da un giorno all'altro, mi sono ritrovato nell'impossibilità di comunicare. Mi faceva rabbia, tanto più che nella mia testa tutto funzionava meravigliosamente», confidava ai giornali. Nonostante un altro infarto nel 2001, la star aveva ritrovato la via del cinema con Vizio di famiglia, recitando accanto a Michael, al nipotino Cameron e all'ex-moglie Diana Dill, madre di «Gordon Gekko». Una resilienza, la sua, che ha trasferito nei tanti ruoli da sopravvissuto.

Imbattibile come giornalista cinico, in cerca di scoop, ne L'asso nella manica (1951), diretto da Billy Wilder; commovente ne Il grande campione (1949), dov'è un boxeur dal passato burrascoso, ma pronto per la rivincita; indimenticabile nel suo film più noto, Spartacus (1960) di Stanley Kubrick, egli ha sempre incarnato personaggi che non mollano. «Vengo da una povertà abietta: per me, non c'era altro che andare in cima», ha detto in un'intervista del 1994.

Un secolo di cinema epico alle spalle, Douglas ha collezionato tre nomination come miglior attore agli Oscar (che poi vincerà solo «alla carriera», nel 1996), due Golden Globe e oltre 90 film in sette decenni, guadagnandosi lo statuto reale sulla «Walk of Fames». Senza perdere un grammo d'ironia. Come quando, parlando in pubblico in occasione dell'85esimo compleanno, affermò: «Mi chiamo Kirk Douglas. Forse avete sentito parlare di me. Ero una stella del cinema. Sono il padre di Michael e il suocero di Catherine Zeta-Jones».

Perfezionista e gran lavoratore, Kirk fu un John Wayne con un pizzico di nevrosi, tendenza Humphrey Bogart. Un duro col cuore d'oro, che si tuffò anima e corpo nel personaggio di Van Gogh, in Brama di vivere (1956), diretto da Minnelli.

Brama di denaro non ne aveva, il vecchio ragazzo di Brooklyn, che s'era fatto largo in un pantheon di stelle come Burt Lancaster, Gregory Peck e Paul Newman e che, tramite la «Douglas Foundation», aiutava attori poveri e malati. «Tanto, dove devo andare, non mi serve niente», scherzava. E gli ballava la fossetta sul mento.

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