Cultura e Spettacoli

Charlot, Fonda & C. Ecco perché Hollywood è così di sinistra

Il libro di Maurizio Acerbi spiega come la mecca del cinema sia diventata un club di «liberal»

di Maurizio Acerbi

Era il 1963 e Marlon Brando pronunciò una frase che è divenuta più che profetica, visto che è stata seguita alla lettera da molti suoi futuri colleghi: «Se un attore riesce a far vendere deodoranti, potrà essere altrettanto utile per vendere idee». L'occasione era un invito a partecipare alla famosa marcia di Washington, quella dello storico «I have a dream» di Martin Luther King. Nulla di nuovo, sotto il sole, verrebbe da aggiungere. Da sempre, le star, siano esse appartenenti al mondo del cinema, o meno, sono convinte di poter condizionare, con le loro esternazioni, il comportamento dei fan. Figuriamoci in quel di Hollywood, dove il pensiero dominante è uno solo, come confermò, nel 2012, Clint Eastwood, il famoso discorso alla convention repubblicana di Tampa, quello pronunciato rivolgendosi anche a una sedia vuota che rappresentava Barack Obama. «Lo so cosa state pensando: ma che ci fa uno del mondo del cinema qui? Sapete, ci sono tanti di sinistra là, addirittura più a sinistra di Lenin».

Steve Carter, co-fondatore con David Horowitz del gruppo American Forum, non ha dubbi in merito: «Un tempo, Hollywood si era distinta per il suo patriottismo, ma dalla guerra del Vietnam in poi, in pratica dalla storica sortita di Jane Fonda ad Hanoi (della quale parlo nel libro), Hollywood ha perso ogni sua verve anti-autoritaria. Oggi nessuno ha il coraggio di porsi apertamente contro l'establishment liberale». In un articolo pubblicato da Silvia Bizio, su Repubblica, del 18 giugno 1992, dal titolo «Hollywood mecca della Sinistra», leggete cosa confessò Camillo Vila, esiliato da Cuba nel 1961: «Il fatto è che a Hollywood tutti cercano di stare nel gruppo, tutti devono amare lo stesso film considerato politicamente corretto e viceversa. È una mentalità adolescenziale, tutti devono essere uguali a tutti. Parlano dei senzatetto quando hanno case che potrebbero ospitare i barboni di mezza Los Angeles, parlano del Cile ai tempi di Pinochet senza saper nulla, poi dei contras e adesso va di moda Castro».

Il 27 gennaio dello scorso anno, nientepopodimeno che il New York Times pubblicò un articolo, a firma di Neil Gross, dal titolo emblematico: «Perché Hollywood è così Liberal?», dove venivano individuati tre motivi per i quali gli attori votano e sostengono, così apertamente, i Democratici. Il primo è legato proprio alla professione. Fare l'attore viene considerata una occupazione da Stato Blu, ovvero da stati Usa tradizionalmente legati ai Liberal. Infatti, il 57% degli attori vive in California e a New York, dove, non a caso, ha trionfato Hillary. La seconda causa è legata al rendimento scolastico, con oltre il 50% di artisti detentore di un diploma di laurea. E la scuola, lo sappiamo molto bene in Italia, influisce sulle idee, divulgando un pensiero spesso a senso unico. Infine, molti attori appartengono ai sindacati - la Screen Actors Guild o l'Actors' Equity Association - e i sindacati tipicamente spingono i lavoratori a sinistra.

Tutto giusto, per carità, però, si potrebbe obiettare che questa appartenenza sia soprattutto una questione di Dna. Hollywood era politicamente progressista molto prima che la California diventasse una roccaforte democratica, che fosse così diffuso andare all'università e quando la Screen Actors Guild era ancora agli inizi. Quindi è improbabile che l'attuale profilo demografico di Hollywood sia l'unica spiegazione plausibile delle sue tendenze liberali. Agli albori del cinema, fatta eccezione per Charlie Chaplin, gli attori erano apolitici. Tempi moderni, capolavoro della cinematografia mondiale, era un chiaro manifesto contro la brutalità del capitalismo, la disumanizzazione dell'operaio alla catena di montaggio. La visione politica di Charlot, di forte stampo progressista (anche se il biografo Richard Carr scrisse che «le idee politiche di Chaplin di solito erano piuttosto a sinistra, ma gli sforzi di Mussolini nella creazione di posti di lavoro hanno inizialmente permesso a Charlie di passare sopra gli aspetti negativi del fascismo italiano e di simpatizzare con esso») finì per costargli una persecuzione nel famoso periodo del Maccartismo. Tanto che, una volta a Londra, gli fu impedito di rientrare in America.

A parte Charlot, però, è negli anni Trenta, anche come reazione al trauma della Grande Depressione, che gli attori si spinsero ad abbracciare una politica progressista. Erano gli anni del New Deal, il piano di riforme sociali ed economiche volute dal presidente Franklin Roosevelt, che venne salutato in maniera entusiastica tra gli artisti del grande schermo, diversamente da quello che fecero alcuni magnati del cinema conservatore come, ad esempio, Louis B. Mayer. Non a caso, la Screen Actors Guild è stata costituita proprio durante quel periodo. Per non parlare del nazismo, che incombeva. Come spiega Gross: «La minaccia del fascismo antisemita ha ulteriormente politicizzato gli attori dello schermo in un'industria che era diventata una nicchia etnica per gli ebrei».

Insomma, gli albori di questo monopolio risalgono a circa un secolo fa e ora gli eredi ne stanno perpetrando la memoria.

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