Con Il regno della parola Tom Wolfe umilia gli scrittori italiani e forse pure i lettori italiani che degli scrittori italiani si accontentano. Dove lo troviamo dalle nostre parti un ottantacinquenne, ma anche un sessantacinquenne o un quarantacinquenne, che decida di giocarsi il letterario prestigio scagliando un libro contro l'evoluzionismo? Prima di tutto questo ipotetico autore italiano dovrebbe conoscerla a fondo, la famosa teoria, e siamo già nell'improbabile, vista la tradizionale insensibilità scientifica di chi traffica nelle patrie lettere. Poi dovrebbe avere una posizione personale e qui siamo nel pressoché impossibile, stante il gregarismo che ci contraddistingue. Meglio scrivere di mamme morte, fratelli handicappati, contrabbandieri e carabinieri come se gli anni Cinquanta non fossero finiti mai, e scrittori di un secolo fa: qualcuno ha tenuto il conto degli articoli di Piperno su Proust?
Che l'antico autore del Falò delle vanità e di Radical chic, dunque odiato dai liberal Usa poco meno di Trump, abbia ancora coraggio da vendere viene ribadito dalle foto di copertina che lo mostrano eccentrico e beffardo perfino più del solito, in completo bianco da gentiluomo sudista con bastone da passeggio, cappello sulle ventitré e il panciotto attraversato dalla catena, si suppone d'oro, dell'orologio da tasca. Se costui non è un trumpiano di sicuro non è un clintoniano, se non è un creazionista di sicuro non è un conformista. Il regno della parola (Giunti) è diviso in due parti, la prima contro Darwin, la seconda contro Chomsky. Entrambi ne escono umanamente e scientificamente a pezzi. «Centocinquant'anni dall'avvento della teoria dell'evoluzione e non hanno ancora scoperto nulla». Wolfe si riferisce all'origine del linguaggio ma è tutto il pensiero corrente sull'origine dell'uomo a venire trafitto dalla sua affilatissima penna (scrivo penna non per pigrizia: se usa ancora l'orologio da tasca potrebbe benissimo usare ancora la penna d'oca). «Dire che gli animali si sono evoluti nell'uomo è come dire che il marmo di Carrara si è evoluto nel David di Michelangelo». È ammirevole la vitalità di questo ottuagenario, la libertà intellettuale di questo signore formalissimo, perfettamente consapevole di rischiare grosso perché «l'evoluzione è ormai integrata nel sistema centrale nervoso di ogni individuo moderno». Sebbene non soddisfi nessuno dei criteri di verifica scientifica: nessuno ha osservato il fenomeno mentre avveniva, nessuno l'ha registrato, nessuno è mai riuscito a riprodurlo in laboratorio... Dunque di cosa stiamo parlando? Di un racconto. L'origine delle specie è un'opera letteraria, come aveva già affermato un paleontologo di Harvard, Stephen Jay Gould, anticreazionista e però non disposto a bersi il darwinismo per sempliciotti dello scimmione che perde il pelo e si fa uomo. Wolfe fa perfidamente notare che la teoria di Darwin assomiglia molto, moltissimo, troppo, alla cosmogonia degli indiani navajo. Altro che scienza, siamo dalle parti dello sciamanesimo. Ma com'è possibile che una teoria indimostrata e forse indimostrabile, per giunta una teoria degradante per l'uomo, si sia imposta nel modo che sappiamo? Il successo del darwinismo è un cocktail di ateismo, classismo e nichilismo. Nella seconda metà dell'Ottocento c'era una gran voglia di lasciarsi alle spalle i vecchi dogmi della religione e allora niente di meglio che abbracciare i nuovi dogmi di ciò che si presentava come scienza. Poi entrò in gioco l'upper class britannica di cui il barbuto naturalista faceva parte per diritto di nascita: «Credere o meno nella rivoluzionaria scoperta di Darwin diventò un elemento di discriminazione sociale. L'adesione al darwinismo dimostrava l'appartenenza a un minoranza illuminata». Quindi scattò l'occupazione delle università e delle riviste, una specie di egemonia gramsciana avanti lettera. Infine l'invasione dell'Europa continentale. Non però quello dell'America, dove l'evoluzionismo rimase relegato a lungo «tra le autoproclamate élite intellettuali». Tom Wolfe non è religioso eppure sembra guardare con simpatia i suoi connazionali creazionisti, certamente meno spocchiosi dell'establishment darwiniano.
Mi sono concentrato sulla demolizione di Darwin anziché su quella di Chomsky. Perché il linguista americano ha fatto danni nel piccolo ambiente accademico più che nel vasto mondo: la sua teoria della grammatica universale si inserisce nella gran corrente evoluzionista ma è «un vaniloquio» molto meno memorabile della teoria che vuole l'uomo discendere dallo scimpanzé. È bastato un giovane, oscuro ricercatore per smentirla e sebbene il suo inventore sia ancora considerato dall'Encyclopedia Britannica uno dei filosofi più importanti di sempre insieme a Socrate, bum, Platone, bum bum, Aristotele, bum bum bum, andrà in soffitta quando l'anagrafe spegnerà il dominio del vecchio e dispotico barone universitario. Mentre l'idea di Darwin sta continuando la sua avanzata. L'areligioso Wolfe è esattissimo nel dire che la vera colpa del darwinismo consiste nell'aver distrutto «la distinzione religiosa tra uomo (creato a immagine di Dio) e animale».
Se oggi la libertà di alimentazione è aggredita dai vegani, se la libertà di ricerca scientifica è assalita dagli animalisti, se il piedistallo dell'uomo si sgretola ovunque, lo dobbiamo a quel naturalista ottocentesco che merita invece la derisione wolfiana per «l'inconsistenza dei ragionamenti» e «l'assenza di elementi a riprova» della sua teoria.
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