Cultura e Spettacoli

La storia mai raccontata di Coco Chanel

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autrice, un estratto di Coco Chanel. Unica ed inimitabile (Ed. Diarkos)

La storia mai raccontata di Coco Chanel

Saumur, Francia 1883. Il sole era al tramonto. Faceva caldo quel 19 agosto quando nacque Gabrielle, una bambina dai capelli scuri e con una tale fame di vita che a memoria d’uomo la suora che la aiutò a venire alla luce non ricordava. Sua madre aveva appena vent’anni ed era spaventata e sola. Vicino a lei non c’era nessuno a tenerle la mano quando i dolori del parto si fecero sentire così forti da impedirle quasi di respirare. «Jeanne, spingi», le gridava una delle monache che erano accorse in suo aiuto. Non avevano fatto in tempo neanche a farla arrivare in una delle stanzette dell’ospizio gestito dalle suore1. La creatura stava quasi per nascere per terra nell’ufficio dell’accettazione. La madre superiora, severa e poco incline alla solidarietà femminile, non aveva apprezzato quell’improvvisa intrusione nella loro vita monastica così silenziosa e piena di pace. La creatura che stava per venire al mondo la infastidiva con tutto il trambusto che aveva creato. Le grida della ragazza si fecero più forti quando una delle sorelle con la voce rotta dall’emozione si girò verso di lei per annunciare: «È nata, è una femmina».

L’insofferenza della madre superiora si trasformò, a guisa di fulmine, in un senso di tristezza profonda. Nascere femmina, senza un padre presente, in un ospizio nel cuore della Loira, non era sinonimo di buona sorte per una neonata. “Cosa avrebbe potuto fare nella vita?”, si chiese mentre la bambina veniva pulita con una pezza di lino. Quale sarebbe stato il futuro suo e di quella giovane mamma che aveva già un’altra figlia piccola lasciata chissà dove? Nulla di buono le venne in mente, così decise di distogliere lo sguardo da quell’esserino ancora pieno di sangue e vita che urlava a più non posso e si incamminò verso la porta. Uscì di fretta da quella occasionale nursery e a passo veloce arrivò nella chiesetta dove due suore, arrivate da poco al monastero, stavano sistemando vasi di fiori freschi. La preghiera, era quella la soluzione. Affidare quella creatura a Dio: che la facesse vivere come si deve o che se la portasse via subito.

Jeanne

Jeanne era terrorizzata e sentiva ancora per tutto il corpo i dolori di quel parto che aveva temuto potesse ucciderla. Era arrivata all’ospizio quando ormai era quasi troppo tardi per chiedere aiuto, ma solo all’ultimo momento era riuscita a convincere la sua vicina a badare alla piccola Julia, la prima figlia di quasi un anno. Le lacrime le scorrevano sul viso sporco di polvere e i capelli lunghi, che erano il suo orgoglio di ragazza, erano appiccicati per via del sudore che le aveva imperlato tutto corpo. Abbracciando quella creatura, che una delle sorelle le aveva passato in una coperta pulita, ripensò a come fosse arrivata a quel punto, a come la sua vita, serena e morigerata, avesse preso quella piega inaspettata che ora stringeva forte al petto in un misto di incredulità e incanto. Fino a pochi anni prima era stata una ragazza giovane e ingenua, affidata a sei anni, dopo la prematura morte della madre, alle cure dello zio Augustin Chardon2, un viticoltore che abitava vicino a Courpière, un piccolo borgo che dominava la vallata della Dore. Il fratello Marin aveva invece continuato il mestiere di falegname che il padre gli aveva insegnato insieme a quel senso di correttezza e di morigerata onestà che lo aveva sempre contraddistinto in tutto il borgo. Il destino di Jeanne avrebbe dovuto essere diverso: aveva iniziato il mestiere di sarta e con un po’ di fortuna avrebbe lavorato in una bottega cucendo abiti e magari sposato un onesto contadino o uno dei viticoltori che lavoravano dallo zio, divenendo madre in maniera molto diversa da come invece era accaduto. E la colpa di quelle disgrazie era tutta di Albert Chanel.

Albert

Se avesse saputo che quella scappatella nel granaio insieme a Jeanne gli avrebbe creato così tanti problemi, avrebbe rivolto gli occhi da qualche altra parte. Doveva ammetterlo, questa volta aveva sbagliato: tra le tante ragazze che alla fine cadevano tra le sue braccia, Jeanne era la più lamentosa e petulante di tutte. Come faceva a non capire che per lui non significava niente? Eppure gli sembrava di essere stato molto chiaro rispondendole male e cercando di evitare qualsiasi contatto con lei. Niente. Quella ragazza era sempre lì quando tornava la sera e con ogni scusa cercava di attaccare bottone. Oggi la biancheria, l’indomani un dolce che aveva preparato e quando Albert le dedicava qualche attenzione, ormai più per pietà che interesse, lei scoppiava a piangere e gli chiedeva in continuazione quando sarebbe andato a parlare con il fratello e lo zio per chiedere loro la sua mano. «Fossi matto!», disse Albert a voce alta, riemergendo dai suoi pensieri: «Piuttosto torno a casa».

Però doveva uscire al più presto da quella situazione. Ormai allungare i suoi giri e star via molto tempo non era sufficiente e a preoccuparlo ancora di più erano le forme di quella ragazza che si facevano ogni giorno più rotonde. Aveva occhio per questo, non per altro era uno tra i più bravi commercianti di tutta la regione e di misure femminili se ne intendeva.

“La fuga”, pensò, di sicuro era la migliore tra le scelte.

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