«L'anno 1968 rappresenta un momento cruciale per l'evoluzione del Movimento comunista dell'Europa occidentale», scriveva Fernando Claudin nel suo libro sull'Eurocomunismo (L'Eurocommunisme, Maspero, 1977). Se si pensa alle ripercussioni della Primavera di Praga, non si potrebbe dire la stessa cosa a proposito degli Stati e dei partiti comunisti dell'Europa centrale e centro-orientale?
In primo luogo constatiamo che in nessuno di questi partiti il 68 aveva provocato una crisi analoga a quella sofferta dai partiti comunisti italiano, austriaco, britannico e francese.
Un accenno di crisi si era avuto agli inizi di quell'anno in Polonia, in coincidenza con gli albori del dubcekismo, ma quel fermento, represso con brutalità, era servito da pretesto per «un autentico pogrom che colpiva ogni aspetto della vita polacca». Il partito e il governo della Polonia di Gomulka, come del resto quelli della Repubblica popolare tedesca, si dimostrarono anche più realisti del re nell'approvare e pretendere l'applicazione della dottrina di Breznev contro il tentativo dei dirigenti del partito cecoslovacco di sganciare la propria «via socialismo» dal modello sovietico.
Kàdàr, dal canto suo, si comportò nella circostanza con un'ambiguità che ricorda l'atteggiamento del francese Waldeck-Rochet.
Era il primo gennaio 1968 quando reso di pubblico dominio la «ristrutturazione» (un neologismo in politica) dei meccanismi economici in Ungheria, con un progetto non sostanzialmente diverso da quello di Ota Sik, l'economista politico ceco riparato in Svizzera l'anno successivo. Temeva probabilmente che una pressione eccessiva sul Pc cecoslovacco, senza parlare dell'eventualità di un intervento armato, rafforzasse a Mosca gli elementi che già non vedevano di buon occhio neppure il riformismo moderato del partito ungherese.
Kàdàr aveva dunque consigliato Mosca di pazientare e intanto consigliava a Dubcek, come aveva fatto Waldeck-Rochet, di riprendere il controllo della stampa se voleva evitare che la sua esperienza degenerasse in una riedizione del dramma ungherese del 56. Certamente senza entusiasmo e soltanto emblematicamente Kàdàr aveva fatto partecipare le proprie truppe all'invasione della Cecoslovacchia. Si rendeva conto che in quell'occasione la maggioranza del popolo ungherese, dimentica dei tradizionali risentimenti verso Praga, simpatizzava con il gruppo di Dubcek.
Con tutto ciò, però, il Partito comunista ungherese non era uscito allo scoperto. A protestare contro l'intervento sovietico erano rimasti soltanto i due governi nazional-comunisti del blocco, quello rumeno e quello jugoslavo.
La contestazione della Romania di Ceausescu scaturiva dai principi «autonomisti» che dal 1964 erano divenuti l'ideologia ufficiale del Paese, benché tale protesta fosse messa in sordina dalla paura di attirare la collera sovietica, dopo la Cecoslovacchia, sul timido «indipendentismo» della Romania.
Anche i dirigenti di Belgrado avevano motivo di temere che l'azione del Patto di Varsavia nei confronti della Cecoslovacchia potesse costituire l'inizio di un tentativo generale di restaurazione del controllo sovietico sui Paesi della loro sfera d'influenza. Tuttavia, contrariamente a quanto era accaduto in Romania, i dirigenti jugoslavi non si erano limitati a condannare la violazione del principio di non intervento ai danni di un Paese fratello: la loro deplorazione era diretta contro la repressione violenta di un'esperienza di cui una parte importante dell'élite politica, oltre a tutti gli intellettuali progressisti, osservava e commentava con simpatia gli sviluppi e si augurava il successo.
Anche in Jugoslavia, quindi, come in Ungheria, in Polonia e nella Rdt, il 21 agosto 1968 rappresentò il colpo di grazia per quelle che definirei le ultime illusioni revisioniste, cioè per l'idea della riformabilità dei regimi comunisti europei fin tanto che l'Urss avesse conservato la propria egemonia e non avesse rinunciato a tentare di imporre il proprio modello politico-economico e culturale. Infatti, se ancora si poteva giustificare l'intervento del 56 in Ungheria - in quanto causato dalla denuncia del Patto di Varsavia da parte ungherese, dalla reintroduzione del pluralismo partitico e dalle violente manifestazioni antisovietiche nel caso cecoslovacco non una di queste promesse si era avverata.
Nei Paesi dell'Europa centrale cominciava dunque a farsi strada la convinzione che, come dice un antico proverbio alverniate, «contro il tempo e il governo non c'è niente da fare». Volenti o nolenti, gli intellettuali dei Paesi dell'Est europeo hanno cercato di trarre dal 68 delle lezioni che non conducessero alla disperazione, al disfattismo totale.
È per questo che, a mio avviso, la ripercussione più importante delle vicende di quegli anni per i Paesi dell'Europa centrale deve essere considerato lo stimolo che la questione cecoslovacca ha impresso al pensiero che sarei tentato di definire post marxista.
Come dicono gli ungheresi Gyorgy Bence e Janos Kis in un loro libro pubblicato in Francia in lingua magiara nel 1983 sotto lo pseudonimo di Marc Rokovski («La société de type sovietique vue à travers le marxisme»), nel 1968 è naufragata la fede quasi mistica che molti intellettuali di sinistra nutrivano, soprattutto dopo Helsinki, nella rinascita del marxismo.
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