Com'era davvero Cohen? Incanti, blazer e tormento. Parola di Suzanne Vega

La vita segreta del cantautore in mezzo secolo di interviste. Fra bikini, Dio e calici di vino

Com'era davvero Cohen? Incanti, blazer e tormento. Parola di Suzanne Vega

Mi è capitato di parlare con Leonard Cohen in diverse occasioni, pubbliche e private.

Dovete sapere che Cohen tende a esprimersi con frasi ben costruite, ricorrendo a termini scelti con cura e sempre adeguati. Insomma, è un tipo piuttosto formale.

Le cose non cambiano neanche dopo una bottiglia di vino o due. Una volta ci intervistarono insieme: la casa discografica ci riservò una sala da qualche parte nella loro sede e rimanemmo lì a chiacchierare per più di un'ora. Mi fece un po' di domande sull'album che avevo appena pubblicato. Ne venne fuori una discussione divertente, intensa: Cohen fu molto provocante e mi pose domande (legittime) sulla mia vita personale e sul mondo della musica, a cui però non mi andava di rispondere. Anche perché tutto ciò che dicevamo veniva registrato per una trasmissione radiofonica.

Al termine dell'intervista, però, andammo a cena e decisi che gli avrei detto tutto quello che voleva sapere. Con mia grande sorpresa, tuttavia, scoprii che, pur continuando a flirtare, non insisteva più per avere delle risposte e io non insistetti per dargliele. Molte cose, dunque, sono rimaste non dette. Se durante l'intervista era stato assolutamente schietto, si trattava comunque di una sorta di recita, perché in privato era ben più gentile, affabile e cordiale.

Ma sempre un po' formale.

Un giorno gli chiesi perché portasse sempre dei completi. «Mio padre era un sarto» rispose. «Non voglio certo sembrare un boscaiolo stile Paul Bunyan».

Un sabato lo incontrai in un albergo di Los Angeles e mi invitò a fare colazione con lui a bordo piscina la mattina successiva, alle dieci. Arrivai puntuale. Mi chiesi se avrebbe indossato uno dei suoi famosi completi. Si presentò in jeans, maglietta, stivali da cowboy, quello che pareva un fedora e un blazer.

«Le andrebbe di ascoltare una canzone a cui sto lavorando?» chiese.

«Ma certo!».

Senza nemmeno un foglietto sottomano, andò avanti per ben otto minuti a declamare un brano dalla metrica perfetta e le rime precise (purtroppo, non riesco a ricordare quale). Rimasi lì seduta, incantata.

Nel frattempo, alle sue spalle, proprio sotto i miei occhi, spuntò una ragazza in bikini, poi un'altra. Si sistemarono intorno alla piscina per una giornata di tintarella e relax.

Al termine della canzone, lì attorno ci saranno state non meno di nove ragazze in costume.

«Non può immaginare cos'è appena successo!», esclamai, descrivendogli divertita la scena.

Senza neanche voltarsi, scrollò le spalle e sorrise.

«Funziona sempre», commentò.

Da adolescente, ero l'unica dei miei amici ad ascoltare la sua musica; lo facevo con una certa devozione, ogni giorno, dopo la scuola. Sembrava quasi un amico, sensazione che non è cambiata quando l'ho conosciuto di persona.

Amavo la sua tetraggine e la sua complessità, oltre all'audacia nelle scelte artistiche. È stato strano essere testimone della sua ascesa nel mondo: ora mi tocca condividerlo con migliaia di persone, su Radio City o al Madison Square Garden.

New York, 2013

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