di Stenio Solinas
Accolto bene dalla stampa straniera e nelle nostre sale cinematografiche, il film la grande bellezza di Paolo Sorrentino ha visto invece un riscontro tiepido della stampa italiana. In fondo, il suo autore era stato un buon profeta, quando, leggendo quest'ultima, se n'era uscito dicendo: «Mi capiscono di più all'estero». Il non aver vinto nulla a Cannes, di là dall'amarezza, non muta i termini del problema, e da Polanski a Soderbergh, altri illustri sconfitti, Sorrentino è del resto in buona compagnia.
Per capire il perché questo Sorrentino (ma era successo anche per Il Divo), lasci perplessa la cinefilia nostrana, bisogna tener conto del manicheismo ideologico di cui per gran parte quest'ultima è affetta, cioè proprio quello da cui la sua cinematografia rifugge, come fosse la peste. La grande bellezza, in fondo, era attesa come il racconto dell'orrore dell'Italia berlusconiana, la volgarità come cifra consustanziale di un'epoca, la decadenza come il combinato disposto dello strapotere televisivo del Cavaliere da un lato, con i suoi annessi di esibizione sfacciata e di vuoto mentale, della corruzione ideologica delle anime e dei corpi dall'altro. Veniva aspettata, insomma, come la rivincita intellettuale a ciò che nelle urne non si era invece verificato, e quindi il ribadire l'esistenza di un'Italia civile, colta e benpensante di fronte a quell'Italia cinica di lazzaroni e prostitute che non si decideva ad abbandonare il proscenio. La grande bellezza, invece, è naturalmente tutt'altra cosa, ovvero la constatazione che è l'Italia in quanto tale, tutta e senza eccezioni, ad essere arrivata al capolinea, e questo perché, dal secondo dopoguerra a oggi, si è consumata la sua incapacità a essere nazione, ad avere un patrimonio comune, una idea alta del Paese, con tanto di doveri, più che di diritti. Sorrentino racconta il grado zero della nostra contemporaneità che parte però da lontano, attualizza, se si vuole, il senso di incertezza della felliniana Dolce vita, perché se lì c'era ancora un futuro incerto che angosciava, qui quel futuro è divenuto presente, è intorno a noi, ma ha le sue radici non in dieci, vent'anni fa, ma proprio in quella società che, a partire dagli anni Cinquanta, riuscì sì nel miracolo economico, ma intanto aveva perso l'anima, il gusto della sfida e della dignità nazionale, delle grandi imprese. Gep Gambardella, il suo protagonista, quarant'anni prima era ancora un uomo di speranze, arrivato nella capitale per conquistarla intellettualmente, e poi via via consumatosi nell'idea di dell'impossibilità di fare nulla di serio e tutto invece di sbagliato, effimero, il puro e semplice piacere inteso come dissipazione. Le feste cui assiste, o che organizza, i parties volgari, eccessivi e inutili in cui trascorre la sua esistenza, non sono altro che la faccia, più o meno sporca, della stolidità culturale e ideologica che per più di un ventennio avvelenò il Paese, gli intellettuali fedeli alla linea del partito di lotta e di governo; i distruttori della tradizione nel nome di un'avanguardia furba e senza grandezza; i teorici di una lettura dell'Italia come un Paese di camorristi, di mafiosi e di venduti da cui ci si doveva ritrarre nel chiuso-aperto di terrazze ben fornite di libri e di liquori, teorizzando la società senza classi e il trionfo della classe operaia...
La grande bellezza non è un film senza pecche: ci sono delle lungaggini, c'è troppa voce narrante, ma è il film di un pessimista che sa bene come un Paese senza «eroi» e senza stima di se stesso, ovvero senza coscienza del proprio destino, è un Paese destinato ad andare alla deriva.
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