Cultura e Spettacoli

Così le gioie libertine portarono la nobiltà dritta alla ghigliottina

Gli illuministi dell'eccesso aprirono la strada ai moralisti (taglia teste) della Rivoluzione

Così le gioie libertine portarono la nobiltà dritta alla ghigliottina

Nella Francia di fine Settecento, stando al duca de La Feuillade, in una famiglia rispettabile non poteva mancare «una puttana o un impiccato»... Fra le dames galantes dell'epoca, la duchessa de Retz e Villeroy era stata soprannominata Madama ficcamelo e Louise-Anne de Charolais, sorella del duca Louis-Henri di Borbone, era solita ricevere i suoi amanti vestita di un saio monacale, non per scrupoli religiosi, ma per essere nuda nel minor tempo possibile. «Si sposa una donna, si vive con un'altra e non si ama che sé stessi» era la morale dell'epoca immortalata da Sartin nel suo Les moeurs du temps, e frequentare le prostitute e avere un'amante faceva parte dell'educazione e della vita di un aristocratico. Nel 1753, passeggiando nei giardini di Palais Royal che gli appartenevano, il duca d'Orléans si fermò d'un tratto sorpreso: «Ma come? -disse al barone de Besenval che l'accompagnava-Nemmeno una puttana per farmi una sega?». Besenval andò subito in perlustrazione e tornò con una prestatrice d'opera...

Poiché buona parte del clero era composta di figli cadetti della nobiltà, costretti agli ordini religiosi per non intaccare l'asso ereditario del fratello primogenito, non sorprende che Parigi fosse piena di giovani ecclesiastici sensibili ai piaceri della carne. Uno dei figli illegittimi di Filippo d'Orléans era talmente pieno di ormoni sotto la sua veste di abate, che il suo superiore andò a lamentarsi dal padre. Questi convocò il figlio e lo rimproverò così: «Sei appena un abatino e già vuoi avere la cattiva condotta di un vescovo»... Non sorprende neppure che la sifilide finisse per essere come un gioco di società: «Il duca di Borbone ha passato la sifilide a Mme de Prie, Mme de Prie l'ha passata a Monsieur de Livry, lui l'ha passata a sua moglie, sua moglie l'ha passata al dottor de La Peyronie, e La Peyronie guarirà tutti».

In Non mi attirano i piaceri innocenti (Sellerio, 333 pagine, 18 euro), Francesca Sgarbati Bosi traccia un quadro più che esaustivo su quanto e come fossero scandalosi i costumi nella Parigi del secolo dei Lumi, la spasmodica, ossessiva ricerca del piacere della società francese settecentesca, l'idea che non ci fossero limiti, in tutti i campi, ma soprattutto nel sesso. Goderne le gioie era, stando alla filosofia in voga, soddisfare un basilare istinto naturale, e nessun eccesso doveva essere represso. Non giocare d'azzardo nei salotti era giudicato offensivo, non andare a puttane una perversione.

Via via che il secolo dei Lumi porta alla luce e allo scoperto superstizione e ignoranza, abusi e privilegi e ne ridicolizza, beffandoli e infrangendoli, divieti e censure, si assiste al paradosso di un'élite di potere che corre incontro al proprio suicidio con la noia noncurante di chi tanto più si sbarazza del suo diritto a comandare, quanto più si illude di trasformarlo in una sinecura di piacere, ripetitiva, e quindi costretta di volta in volta ad alzare l'asticella della trasgressione.

Non è un fenomeno nuovo e nel Novecento Céline, scrittore maledetto come nessun altro, lo riassumerà così: «A leggere la storia, si pensa che le epoche di decadenza furono, a viverci, le più piacevoli! Che errore! Al contrario sono noiose, stupidamente crudeli, ripetitive. Si comprende perché i romani della decadenza si inculavano a più non posso. Si annoiavano». La noia settecentesca trova il suo apice in una corte che, per dirla con il grande storico della Rivoluzione Jules Michelet, è preda di una vera e propria «epilessia del piacere», a cui si accompagna «l'ozio rovinoso e mortale della nobiltà» di cui Saint-Simon aveva già individuato i germi nella Versailles di Luigi XIV e che un contemporaneo della Rivoluzione, il visconte de Ségur, riassumerà così: «Marciavamo allegramente su un tappeto di fiori che ci nascondeva un abisso. Tutto ciò che era antico ci sembrava fastidioso e ridicolo. La libertà, quel che fosse il suo linguaggio, ci piaceva per il suo ardimento, l'eguaglianza per la sua comodità. Si prova piacere a discendere, finché si crede di poter risalire quando si vuole; e, senza alcuna preveggenza, godevamo i vantaggi del patriziato e le dolcezze della filosofia plebea».

In una società epicurea, il gusto del tempo colora di voluttà il ritorno alla natura e i diritti dell'istinto, una filosofia del piacere che ancora si illude di poter fare a meno di un'ideologia che nell'assumerla in toto la rovescerà come un guanto, il libertino che si scopre rivoluzionario, il rivoluzionario che sostituisce il piacere con il potere, ovvero il piacere del potere, sempre più assoluto, sempre più totale. Il resto si perde nei mille rigagnoli che una pletora di scribacchini contribuisce a far confluire nel grande fiume della letteratura e del romanzo settecentesco, libelli e pamphlet, satira e radicalismo, un precipitare di monache libidinose e di vescovi bavosi, di novelle Messaline in vesti di mantenute, di favorite, di contesse più o meno sedicenti, di nobili impotenti o sodomiti, sempre e comunque indegni del ruolo rivestito, un ruolo, va da sé, che aspetta il nuovo potere in grado di incarnarlo.

Una letteratura trionfante prepara il trionfo della politica che ne prende il posto e non procede nei suoi confronti ad alcuna cooptazione. Non è senza significato che la Rivoluzione consegni al boia l'unico poeta uscito dal suo seno, André Chenier, costringa all'esilio l'unico scrittore in grado di riscattarla, Chateaubriand, chiuda alla fine in manicomio persino chi, sia pure con molte licenze, poteva definirsene causa e insieme effetto, Sade. Nella sprezzante replica, «la Rivoluzione non ha bisogno di scienziati», con cui il presidente del tribunale Coffinhal taglia corto alle richieste del chimico Lavoisier di fargli terminare un esperimento prima di mandarlo alla ghigliottina, è racchiusa la fine di un equivoco e insieme del sogno di una monarchia talmente illuminata dai suoi Lumi da potersi trasformare in repubblica dei sapienti.

Nel mondo nuovo della Rivoluzione, il Mirabeau autore di Le libertin de qualité cede il passo al Mirabeau tribuno e demagogo della Costituente, così come il Saint-Just autore del poema erotico-satirico Organt trova la sua ragion d'essere chiedendo la morte di Luigi XVI: «Non si può regnare innocentemente».

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