Cultura e Spettacoli

Cosa resta di Berlinguer? Un compromesso storico con tutti i suoi fallimenti

Il film è ben fatto. Ma dal punto di vista politico il segretario del Pci ne esce male: restano solo i rimpianti di chi credeva in lui

Cosa resta di Berlinguer? Un compromesso storico con tutti i suoi fallimenti

L'inizio è sconvolgente. Ma non per Berlinguer: per tutti noi. Il passato oggi muore subito, nel giro di tre decenni, tabula rasa. Studenti e giovani cittadini alla domanda «chi era Berlinguer?» azzardano: un uomo di estrema destra, uno scrittore che aveva a che fare con la Corea e con l'Europa, un francese che ha scritto Guerra e pace, e così via. Poi, arriva il film vero e proprio. Walter Veltroni mi aveva cercato qualche giorno fa: «Vuoi venire a vedere in anteprima il mio film?». Appuntamento davanti al cinema Mignon di Roma alle 10 del mattino. A vedere Quando c'era Berlinguer (che sarà nelle sale dal 27 marzo) siamo in pochi, qualche giornalista, amici di Veltroni. Il film è molto ben fatto, un eccellente documentario scandito da emozioni e ricordi, nulla da ridire, anzi. Poi, l'aspetto politico. E anche storico: chi era e che cosa ha rappresentato Enrico Berlinguer? La risposta è mesta: una serie di fallimenti terminata in un fallimento globale. Ma con un travolgente coinvolgimento emotivo.
Il piccolo, scarno sardo provocava in tutti, o quasi, un sentimento di protezione, di ammirazione. Io mi trovai a viaggiare con lui un paio di volte andando a Bruxelles. Lo vedevo così minuto e come prima impressione mi inteneriva. Ma si trattava di un piccolo uomo d'acciaio. Una volta, dio sa perché, ci imbarcammo in una surreale discussione sul colore dei calzini: devono accordarsi con le scarpe o con i pantaloni? Avevamo idee diverse, ma non ricordo quali. Però era un uomo naturalmente elegante e si vedeva che, come il marchese di Saint Just, era un aristocratico prestato alla rivoluzione. E il film di Veltroni naturalmente cita, mostrandola, la più crudele e scandalosa vignetta di Giorgio Forattini quando disegnò Berlinguer in vestaglia di seta che prende il tè con capelli impomatati e bocchino d'avorio, infastidito dallo sciopero generale e dai suoi schiamazzi.
Il film di Veltroni ha molti meriti e qualche lacuna. Fra i meriti quello di aver suggerito con cautela (lo fa intuire dall'intervista all'ex brigatista rosso Alberto Franceschini) che se qualcuno può avere a che fare con la morte di Aldo Moro (e dello stesso Berlinguer, aggiungo io) quelli sono i sovietici e non la Cia, non gli americani, non il Mossad. Il segretario del Pci subì un attentato in Bulgaria il 3 ottobre del 1973 con un premeditato incidente stradale in cui morirono il suo interprete e l'autista. Ricoverato in ospedale - mi raccontò poi Francesco Cossiga - Berlinguer fu riportato a casa di corsa dai nostri servizi segreti.
Ma anche sulla sua fine improvvisa dopo il comizio di Padova del giugno di trent'anni fa, tutti avevano ed abbiamo molti dubbi. Certo, Berlinguer morì di ictus cerebrale, ma quella malattia è una di quelle che possono essere artificialmente indotte dal Dipartimento Speciale composto alla sua fondazione da 621 addetti medici e ricercatori del Kgb, riuniti poi nel «Laboratorio numero 1», detto anche Kamera. È una storia che si può leggere in Kgb's Poison Factory dello storico russo ora cittadino inglese Boris Volodarsky, e lo cito soltanto per certificare che non sono fantasie e anche che quando ero davanti alla porta chiusa dell'ospedale di Padova in cui Berlinguer moriva, di questa ipotesi le persone a lui vicine parlavano apertamente, benché a bassa voce.
Veltroni mostra bene e con vera arte cinematografica (il teatro pieno di pezzi da novanta del Cremlino e poi lo stesso teatro vuoto e senza senso) il conflitto fra Berlinguer e i sovietici quando il segretario del Pci andò a Mosca per fare la più eretica delle dichiarazioni, annunciando che non la rivoluzione, ma la democrazia è un bene universale e collettivo che tutti devono rispettare. Quella deliberata e significativa provocazione mandò in bestia centinaia di pasciuti generali e funzionari sovietici tappezzati di medaglie, che lo ascoltavano con volti lividi e vendicativi. Voglio ricordare anche a Veltroni che nel libro di Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli L'Italia vista dalla Cia sono pubblicati gli inattesi e certificati documenti che dimostrano che la Cia e gli Usa facevano il tifo per il compromesso storico, perché avrebbe avuto l'effetto di sganciare definitivamente il Pci da Mosca per portarlo al governo come avvenne con i socialisti di Pietro Nenni nel 1963.
Comunque sia, Berlinguer morì e con lui morì il partito comunista. Su questo tutti i grandi intervistati del tempo che fu, da Macaluso e Ingrao, da Tortorella a Napolitano (che piange) non hanno dubbi: Natta non ce la fece a resuscitarlo, Occhetto meno che mai. E venne subito l'ora di Mani pulite e della fine della prima Repubblica, con l'irrompere sulla scena politica di un nuovo protagonista di nome Berlusconi. Fu l'ora però del requiem per tutti i partiti, salvo che per il Pci ribattezzato Pds che ebbe dalle procure un trattamento di grande favore, ma questa è un'altra storia.
Dice Veltroni alla fine della proiezione: «Capisci? Quando io dicevo che non ero comunista, intendevo dire che vivevamo in un partito, quello di Berlinguer, in cui si discuteva e si litigava apertamente, ci si sentiva liberi e in un ambiente moralmente pulito». E qui siamo alla questione morale, che Veltroni nel suo film traccia senza calcare la mano. E invece avrebbe forse dovuto calcarla un po' di più, perché l'atteggiamento che Berlinguer e il suo partito assunsero specialmente nei confronti dei socialisti - io ero uno di loro - rasentò il razzismo. Iscritti e militanti del Pci furono dichiarati «razza eletta», moralmente e antropologicamente superiore - veri «ariani del bene» - e tutti gli altri, in particolar modo i socialisti, razza reietta. Ora sono tutti d'accordo fra i vecchi d'allora nel dire che fu un tragico errore, ma le conseguenze dell'errore restano.
Berlinguer puntava spasmodicamente al grande accordo con i cattolici e dunque con la Dc, prendendo spunto dal colpo di Stato del generale Pinochet (11 settembre del 1973) contro il presidente socialista cileno Salvador Allende, la cui elezione con un super-porcellum aveva provocato una rivolta della borghesia. Gli americani sostennero i golpisti e Allende morì impugnando il mitra che gli aveva regalato Fidel Castro. Fine dell'esperimento socialista cileno.
Berlinguer, preoccupato della possibile simmetria col caso italiano, lanciò il progetto di compromesso storico con la Dc e si svenò su quel progetto di cui Aldo Moro doveva essere il garante (e il film mostra a lungo il presidente della Democrazia Cristiana) dalla sommità del Quirinale cui era destinato al momento della sua cattura da parte di un commando «brigatista» con capacità militari difficilmente credibili.
Moro fu trucidato nel bagagliaio della famosa Renault di via Caetani e il compromesso storico fu archiviato. Ma Berlinguer aveva un «Piano B»: abbandonare l'ideologia comunista che l'avrebbe comunque legato a Mosca e lanciare una crociata sardo-luterana contro l'immoralità politica. Questa parte della riconversione, nel film di Veltroni è appena accennata anche perché la sua è una pellicola che parla più alle emozioni, al cuore e alla memoria e non pretende di essere un saggio di storia. Ma Berlinguer riesumò la martire del pudore cristiano Maria Goretti e si scatenò contro i socialisti che si erano rifiutati di far fronte con lui per un'alternativa di sinistra, additandoli al pubblico disprezzo.
La scena di Berlinguer e la sua delegazione che entrano nella sala in cui si svolge il congresso del Psi craxiano, è una frustata. Berlinguer è fischiato e Craxi gli rivolge scuse sarcastiche: «I fischi non sono alla persona, ma alla politica. E se io non ho fischiato, è soltanto perché non so fischiare». Fu la sua dichiarazione di guerra aperta, definitiva. Quella guerra ha mantenuto aperte le porte del tempio di Giano fino ad oggi, dal momento che il conflitto infernale fra berlusconismo e antiberlusconismo è cosa dei nostri giorni, con evidenti radici in quel passato. Berlinguer colpì profondamente l'emotività degli italiani, molto al di là della consistenza reale del suo partito. I suoi funerali videro in strada milioni di persone che piangevano e anche Giorgio Almirante, segretario del Msi e uomo schietto, disse che con Berlinguer scompariva un uomo onesto che aveva lealmente combattuto per ciò in cui credeva.
Ma dopo aver visto e goduto questa pregevole opera prima di Walter Veltroni regista, torna in mente la vecchia canzone francese: Que reste-t-il de nos amours? Che cosa resta di tutto ciò? Un rimpianto per chi ci credeva, e per chi non sa nulla forse curiosità. Ma emerge molto bene che quest'uomo fu un campione di leadership, e fu nel suo contrastato partito «un uomo solo al comando» capace di trascinare milioni di italiani per il bavero delle emozioni.

Benigni lo prendeva in braccio gridando «Berlinguer ti voglio bene» e quel che resta del segretario comunista successore del filosovietico Luigi Longo è ora racchiuso nell'urna cineraria di un bel film in cui molto dicono gli spazi ora vuoti di Mosca e di Roma, delle piazze che furono gremite e che restano ingombre di vecchi giornali nel vento.

Commenti