Messo (provvisoriamente?) da parte il Britpop dei Blur, le esplosioni «virtuali» dei Gorillaz, le avventure sonore dei The Good, The Bad & The Queen, le mille attività che ne fanno uno degli artisti più poliedrici dei nostri tempi, Damon Albarn pubblica Everyday Robots, il suo primo album solista. Un disco intimista e autobiografico, dai suoni meditati e dai testi personali che raccontano la sua vita dall'infanzia ad oggi. «Il mio produttore Richard Russell mi ha proposto di incidere un disco da solo, così non ho potuto fare altro che mettermi davanti allo specchio e tirare fuori tutto me stesso».
Da Everyday Robots che parla dell'uso eccessivo e pericoloso della tecnologia a Mr Tembo (primo singolo) storia di un elefantino che lo riporta alla sua passione per l'Africa e per i suoni neri, Albarn mette a nudo la sua anima parlando di droga, di cuori spezzati, di sogni perduti. In un certo senso è un lavoro liberatorio, una confessione laica che Albarn si impegna a celebrare anche sul palco, come hanno dimostrato i primi concerti del tour che lo porterà in Italia il 14 luglio al Vittoriale di Gardone Riviera e il 15 alla Cavea Auditorium Parco della Musica di Roma. «Finalmente potrò rappresentare dal vivo l'intera gamma del mio repertorio. Per esempio eseguire una canzone dei Blur guidata dal pianoforte. Non facendo parte di una band ma avendo un gruppo a mia disposizione sono molto più libero di decidere gli arrangiamenti».
Per un artista simbolo degli anni Novanta (in cui i Blur furono, artisticamente, acerrimi rivali degli Oasis) cosa è ancora vivo di quel periodo, cosa si porta dietro oggi di quell'epoca? «Gli anni Novanta sono stati un decennio particolare, l'inizio della fine di un certo modo di fare musica e di impegnarsi. La musica è passata attraverso un filtro, e sia il rock che le persone si sono allontanate dalla politica. Forse perché sono troppo impegnate a giocare con i telefonini o a guardare i gatti che salvano i bambini su youtube. Quando ho cominciato a fare rock c'erano due riviste musicali, oggi c'è il boom dei media attorno alla musica. Il mio era un mondo senza Internet e il telefonino era solo uno status symbol. Se dico queste cose a mia figlia mi guarda basita. All'epoca si registrava ancora su nastro e c'era un sacco di editing da fare prima che un brano fosse pronto. Poi nella decade successiva abbiamo avuto accesso ad ogni tipo di tecnologia e di suoni ma intanto tutto è regredito: la musica veniva scritta da gente che non si vedeva e cantata da giovani che esasperavano la loro carica sensuale piuttosto che la ricerca». Non parla di una eventuale rinascita dei Blur, ma di quella dei Gorillaz, «la band virtuale con il maggior successo di sempre», che potrebbe anche tornare in concerto grazie agli ologrammi. «Sono stato un precursore degli ologrammi, forse li ho utilizzati troppo presto, l'idea pazzesca all'inizio era quella di ricreare personaggi che non ci sono più o personaggi inventati. Comunque con i Gorillaz farò almeno un altro disco dal suono positivo, allegro e ritmato». Ma Damon Albarn ha in serbo anche altre sorprese: «Amo la musica da camera vittoriana e l'opera italiana del diciannovesimo secolo», tiene a sottolineare. Così, dopo aver musicato Monkey:Journey to the West e un lavoro su John Dee, ora sta scrivendo un'opera tutta sua.
Sempre impegnato in prima fila contro la guerra e il razzismo, Albarn commenta la vittoria del partito euroscettico Ukip in Gran Bretagna.
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