De Jouvenel, il barone libertario che ruppe la gabbia del potere

Pensatore irriverente, amato da Raymond Aron e Von Hayek, ha analizzato i rischi della democrazia. Critico verso i totalitarismi, superò le categorie di destra e sinistra

De Jouvenel, il barone libertario che ruppe la gabbia del potere

Quando, ormai anziano, appariva in pubblico, con i capelli e la barba bianchi e quei baffi che evocavano i moschettieri dei romanzi di Dumas, per una conferenza o per una cerimonia, Bertrand de Jouvenel dava l'impressione di venire da un mondo aristocratico e lontanissimo nel tempo. Il fatto, poi, che il suo nome, per i più, richiamasse alla memoria il movimento dei «Futuribili» (acronimo di «Futuri possibili») e la bella rivista omonima, gli conferiva una certa aura di saggezza, da profeta del mondo a venire. Il suo più grande amico Raymond Aron un'amicizia che durò inalterata fin dalla metà degli anni venti - lo definì «uno dei principali pensatori politici della sua generazione». E, forse, non esiste giudizio più appropriato per uno studioso spinto dalla sua inesauribile curiosità intellettuale ad attraversare, sempre in maniera originale e autonoma, le più significative, e contraddittorie, esperienze speculative e politiche del secolo passato. Fino ad approdare ai lidi di quel tempio e baluardo del liberalismo che è la Mont Pelerin Society.

Era nato, il barone Bertrand de Jouvenel (1903-1987), da una famiglia aristocratica, che aveva dato alla Francia personalità di rilievo come lo zio Robert, autore di un celebre saggio dal titolo La République des camarades (1914), e il padre Henry, uomo politico radicale e diplomatico di primo piano che avrebbe sposato in seconde nozze la scrittrice Colette. Cominciò presto la sua carriera di giornalista e di saggista diventando, giovanissimo, redattore capo di un giornale in origine radicale, La Voix, che, proprio grazie a lui, si trasformò in una specie di laboratorio politico-culturale nel quale si ritrovarono, in uno strano sincretismo, autori diversissimi fra loro come Henri Daniel-Rops, Emmanuel Berl, Pierre Drieu La Rochelle e Georges Valois. Proprio in una collana fondata e diretta da Valois singolare figura di intellettuale transitato dall'anarchismo iniziale al nazionalismo monarchico di Maurras, passando per il sindacalismo di Sorel egli dette alle stampe, sul finire del 1928, il libro L'economie dirigée. Le programme de la nouvelle génération, fortemente critico nei confronti del capitalismo e del liberalismo, oltre che del comunismo, e, certamente, non incasellabile nelle categorie di destra e di sinistra.

Il riferimento alla nouvelle génération, contenuto nel sottotitolo del libro, è importante perché consente di inserire, sia pure in prima approssimazione, Bertrand de Jouvenel all'interno di quel fermento generazionale che caratterizzò la Francia del suo tempo, dei cosiddetti années tournantes (per usare le parole di Daniel-Rops): un fermento che si sarebbe materializzato negli incontri, al di là delle posizioni ideologiche e dei coinvolgimenti politici, fra quelli che lo storico Jean-Louis Loubet Del Bayle avrebbe definito «i non conformisti degli anni Trenta». Questa generazione giudicava la III Repubblica, pur all'indomani di una guerra vittoriosa, ormai decadente, priva di ideali e senza speranze: un Paese, insomma, che sembrava, in maniera paradigmatica, mostrare la senescenza delle democrazie europee e del liberalismo di fronte alle sfide culturali e politiche portate avanti, in tutta Europa, da movimenti nuovi che avevano innalzato il vessillo del giovanilismo.

Nella Francia dei primi decenni del Novecento divisa, dal punto di vista intellettuale prima che politico, tra l'anima «demomassonica» della III Repubblica e un variopinto schieramento di suoi nemici che andavano dai cattolici tradizionalisti ai monarchici, dai bonapartisti ai nazionalisti fino ai dissidenti dell'Action Française il clima di insoddisfazione nei confronti delle istituzioni e il senso di precarietà avevano generato un vivace dibattito culturale che riguardava non soltanto i temi di una possibile riforma delle istituzioni ma anche, più in generale, il futuro del liberalismo e il pericolo del marxismo.

Questo dibattito era val la pena di ribadirlo soprattutto «generazionale» e travalicava le barriere ideologiche. La grande scrittrice Colette che di Bertrand era la matrigna, avendone sposato in seconde nozze il padre Henry, e che di lui sarebbe stata anche la scandalosa e appassionata amante si burlava di tali giovani definendoli «piccoli satana politicheggianti» che avrebbero voluto stravolgere il mondo contestando il capitalismo ma al tempo stesso rigettando le soluzioni comuniste. Il coinvolgimento di De Jouvenel nel movimento fascista francese di Jacques Doriot nasce come peraltro avvenne per altri intellettuali quali Drieu la Rochelle proprio all'interno di questa rivolta generazionale che auspicava (così si leggeva nel settimanale La lutte des jeunes, da lui fondato con Pierre Andreu) uno «Stato nuovo lontano dal parlamentarismo e dal capitalismo».

Nell'ultimo scorcio del conflitto mondiale, egli, nel frattempo riparato in Svizzera, scrisse un'opera, ora riproposta ora in traduzione italiana con il titolo Il potere: origini, metafisica, limiti (Oaks edizioni, pagg. 416, euro 24) e con una bella introduzione di Simone Paliaga. Il volume, che lo consacrò come uno dei maggiori studiosi di politica, uscì a Ginevra nel 1948. Friedrick von Hayek ne parlò in termini entusiastici definendolo «un grande libro», uno «studio monumentale» che offriva «una descrizione magistrale e spaventosa dei meccanismi impersonali con i quali il potere tende ad espandersi fino a divorare l'intera società». Il giudizio del grande economista liberale non deve affatto stupire perché in fondo le tesi di De Jouvenel erano del tutto congruenti con quelle che lo stesso von Hayek, poco tempo prima, aveva enunciato nel volume The Road to Serfdom (1944) divenuto un successo planetario dopo la pubblicazione di una sua versione abbreviata nel Reader's Digest. Alla fin fine i due saggi convergevano nel presentare il totalitarismo o la «democrazia totalitaria» come esito, nel caso di von Hayek, del socialismo in ogni sua manifestazione, o, nel caso di De Jouvenel, di un accrescimento inarrestabile del potere statale e governativo quale venne manifestandosi in Europa a partire dal XVII secolo per giungere al «Minotauro dal volto scoperto» della Germania hitleriana.

Il tema della necessità della limitazione del potere, sia attraverso la creazione di contro-poteri sia attraverso meccanismi di garanzia di una effettiva divisione dei poteri, consente di inserire De Jouvenel in un filone speculativo tipico del pensiero liberale classico, quello «antidemocratico». Nel volume dedicato al potere, egli sostiene che «la sovranità del popolo non è altro che una finzione» perché «non esiste istituzione che permetta di far concorrere chiunque all'esercizio del potere, dal momento che il potere è il comando, e non è possibile che tutti comandino». Parole chiare che spiegano anche, a prescindere dall'amicizia fra i due, come, in seguito, a partire dalla fine degli anni quaranta e dopo la pubblicazione da parte di De Jouvenel del volume sulla sovranità, Sovereigthy: An Inquiry into the Political Good (1947), l'ultraliberista von Hayek raffreddasse le sue simpatie per lo studioso francese.

Tanto più che, nell'ultima fase della sua speculazione, quella legata alla ricerca di «possibili futuri», egli intravvedeva, probabilmente, una deriva tecnocratica e razionalistica, quasi una sorta di quell'«abuso della ragione» che, proprio lui, von Hayek, aveva denunciato in un celebre saggio. Tutto ciò non mette in discussione, peraltro, il fatto che Bertrand de Jouvenel possa essere inserito, a giusto titolo, nel Pantheon dei pensatori liberali.

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