Cultura e Spettacoli

“Don’t Worry Darling”, Harry Styles in un thriller psicologico (e politico)

Un film che descrive i limiti di un’utopia bella e sinistra, quella di avere tutto sotto controllo, e che, attraverso la metafora, racconta di come certe concessioni paradisiache nascondano abusi di potere

“Don’t Worry Darling”, Harry Styles in un thriller psicologico (e politico)

Don’t Worry Darling, diretto da Olivia Wilde, è il film evento della mostra del cinema di Venezia di quest’anno. Il motivo non è strettamente cinematografico, bensì legato all’esposizione mediatica del suo protagonista, Harry Styles, divo attesissimo dai giovani in laguna.

Tralasciando tutto il gossip che ruota attorno ad un film il cui cast, tra relazioni, liti e smentite sta generando titoli clickbait in mezzo mondo, diamo l’unica notizia degna di nota: l’opera, presentata Fuori Concorso, è intrigante e di un certo spessore.

I protagonisti, Alice (Florence Pugh) e Jack (Harry Styles), sono marito e moglie. Attraenti e innamorati, vivono assieme ad altre coppie come la loro in una comunità idilliaca, Victory, un microcosmo da cartolina in cui non esistono problemi di sorta. Si tratta di una città sperimentale, una bolla protetta oltre la quale si estende il deserto. Ogni mattino gli uomini si recano a lavorare ad un progetto top secret alle dipendenze di Frank (Chris Pine), il creatore di Victory. Le mogli, tutte amiche tra loro, restano a casa a prendersi cura dell’abitazione prima di andare insieme a fare shopping o a svolgere altre attività ricreative. Qui tutti hanno raggiunto quella che sembra essere una vita ideale: agio economico, l’amore della vita accanto e un futuro solido. Ad un certo punto però Alice inizia ad avere dei flash mnemonici che la porteranno a sospettare di vivere una menzogna.

“Don’t worry darling” è un thriller psicologico che non mette in scena solo l’ottimismo sociale degli anni ’50 e ’60, ma anche l’estetica di quel periodo. Ricorda per certi versi la compagine di altri film, da “The Truman show”, a “Suburbicon” e “Pleasantville”. L’iconografia statunitense di un’epoca coloro pastello in cui vivere “happy days” calza a pennello per chi, come il capo del progetto, voglia educare all’ordine e alla precisione supremi i suoi sottoposti. Mentre lui fidelizza gli uomini a colpi di promozioni professionali, la sua consorte (Gemma Chan) istruisce le mogli su quanta ci bellezza ci sia nel controllo e grazia nella simmetria.

Il visionario Frank si esprime come fosse in possesso di una sapienza messianica. Rende appetibile la confort zone ai suoi concittadini e ripete loro che insieme potranno cambiare il mondo proprio a partire da quell’eden nel deserto. “Don’t Worry Darling” mostra come il linguaggio sia un’arma e come le promesse e i benefit materiali siano strumenti di controllo. Più che abolire il caos, il demiurgo del film intende schiacciare il libero arbitrio.

Il tipo di donna che vive qui prova gioia nell’allietare il riposo del guerriero. Pensare che questa sia la descrizione della felicità partorita da una sensibilità esclusivamente maschile sarebbe sbagliato, il film lo dimostrerà. Magari non tanto il bamboleggiare e l'esprimersi nell’arte degli antipasti, ma l’idea di non essere autonome e di esistere come appendice di marito e figli può comunque essere un’aspirazione per alcune (lo era per molte fino a non troppo tempo fa, del resto).

Quel che importa alla talentuosa Olivia Wilde non è discettare su quale sia la vita ideale, questione evidentemente soggettiva. Il punto è che imporre con l’inganno una propria idea di benessere a qualcun altro diventa un abuso di potere.

L’ipotetica cacciata dal paradiso terrestre si profila quando Alice sceglie di violare l’unica regola imposta a chi viva lì. La novella Eva si espone in quel modo, più che alla conoscenza del bene e del male, alla consapevolezza di cosa sia reale e cosa no. La Wilde gioca molto con certi archetipi femminili, ad un certo punto vedremo l’Alice di questo paese delle meraviglie sui generis perdere una scarpetta come Cenerentola, proprio nel momento in cui si trova a venir separata dal suo principe.

La rassicurazione del titolo allude, una volta di più, a come ci sia invece da preoccuparsi quando qualcuno di potente vuol convincerci che va tutto bene. Quando ogni cosa sembra perfetta, è allora che dobbiamo interrogarci su cosa venga occultato alla vista. Quando siamo oggetto di rassicurazioni troppo belle per essere vere, domandiamoci se non ci stiano manipolando per farci rimuovere consapevolezze scomode. Infine, sembra dire il film, teniamo a mente che l’oblio indotto di una serie di informazioni ci priva del diritto di pensare con la propria testa e di esercitare il potere di scelta.

“Don’t Worry Darling” è un monito a riconoscere il marcio oltre l’apparenza linda, la coercizione oltre la lusinga e a ricordare che spesso un’anomalia nel sistema è una benedizione in quanto scintilla del pensiero critico.

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