Donati, poetessa al tempo del sangue

Giuseppe Conte

Scrive Alba Donati, nel libro che raccoglie tutta la sua opera poetica (Tu, paesaggio dell'infanzia, La nave di Teseo, pagg. 298, euro 18): «Non vi amo poeti, sono politica/ e forse morirò sporca di sangue!». Eppure, l'autrice sa che quello che scrive nasce dall'aver lungamente coltivato dentro di sé le parole di altri poeti, dedica una delle sue poesie che Giorgio Ficara nella sua magistrale introduzione giudica una «delle più perfette» del libro alla memoria di Cesare Garboli, rievoca i letterati scomparsi della sua Firenze, li convoca tutti, da Baldacci a Bigongiari, da Pampaloni a Garin, sino alla «scattante capretta» che risponde al nome di Luzi. In verità, quello che Donati non ama dei poeti e dei letterati in genere è il tirarsi fuori dalla mischia, il non accettare di assumere responsabilità civili e in senso lato politiche. Lei è decisa, battagliera, pronta persino a ergersi a giudicare chi leggere e chi non leggere tra i contemporanei. Dalla Ballata della Repubblica contadina, che ci mette davanti a donne e uomini del popolo di cui si compie l'umile destino di morte, di vita, di malattia, di pazzia, di amore, con qualcosa che ricorda la voce robusta di Lee Masters, di Pavese, della Beat generation, sino al Pianto sulla distruzione di Beslan, un testo capitale dedicato alle vittime della tragedia di Beslan, epico, solenne e nello stesso tempo prosciugato da ogni esteriore poetizzazione, Alba Donati è animata da una eticità risentita. In qualche modo utopisticamente rivoluzionaria, mai priva di un fortissimo senso di pietà per i piccoli, i deboli, i diversi, di una sincera aspirazione al bene.

Fonti della sua ispirazione appaiono prevalentemente Lucignana, un borgo tra le Apuane e gli Appennini dove è nata, e gli affetti familiari. In un testo intitolato Figlia madre figlia madre figlia, una specie di discendenza matrilineare si concretizza e assolutizza nell'immagine di tre donne, la poetessa, sua figlia, sua madre, che dormono nella stessa casa e respirano in tre insieme, «tre epoche in una stanza». Idillio con cagnolino, una delle poesie più belle del libro, madre e figlia nel «lettone» con ai piedi il cagnolino che guarda in su «come chi guardasse il paradiso», ha davvero la grazie di un quadro di Courbet. E presente come un nodo centrale, memoria incancellabile ed emblema dell'innocenza e del bene, è la figura di Valerio, il fratello del padre dell'autrice, che a 11 anni nel 1944 annegò nel Serchio in seguito alla esplosione di una diga a monte, causata dalle truppe tedesche, mentre aiutava una famiglia di sfollati. In lui si specchia la bambina Giulia, di anni 5, vittima della alluvione nell'Alta Versilia del 1996. Il linguaggio di Alba Donati si adegua magnificamente ai contenuti: sa essere elegiaco, idillico, epico, spoglio, tragico, militante.

Perché finalmente Alba Donati, fuori da ogni manierismo e da ogni astrazione, è una poetessa di contenuti: e di contenuti capaci di affrontare tutta la dolcezza e tutta la sanguinaria violenza del mondo. Lì sta la sua importanza, lì il suo destino.

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