«Le piace la copertina del libro? Sì, io e Nelo siamo giovani... Ma io avrei preferito due mani che si stringono. Perché gli tenevo sempre la mano, tutto il giorno». Edith Bruck parla al telefono da casa sua a Roma. Nelo è suo marito Nelo Risi, poeta e regista (come il fratello Dino) morto nel settembre del 2015 dopo dieci anni di una malattia che gli ha tolto sempre più la lucidità, la memoria, l'autonomia. La rondine sul termosifone, appena pubblicato da La nave di Teseo (pagg. 144, euro 16; l'autrice lo presenterà domenica al Teatro Franco Parenti di Milano) è il racconto dei loro ultimi anni insieme. Da quando è arrivata in Italia, negli anni Cinquanta, Edith Bruck scrive libri nella nostra lingua. Lei è ungherese: è nata in un piccolo villaggio al confine con l'Ucraina, in una famiglia ebrea e povera. «Mia madre parlava più con Dio che con noi, e io le dicevo: ma che cosa chiedi? Tanto non ti dà niente. Mio padre, pover'uomo, non riusciva a darci da mangiare». A dodici anni lascia il suo villaggio per andare ad Auschwitz. Poi Dachau, Bergen-Belsen. Lei, la sorella e un fratello sopravvivono. La madre, il padre e un altro fratello no. È da allora che Edith Bruck racconta l'Olocausto.
Come mai ha scritto un libro sulla malattia di suo marito?
«L'ho deciso nell'ultimo anno della malattia di Nelo: avevo bisogno di una fuga da questo incubo. È stata anche una sorta di terapia... La carta sopporta».
Nel libro fa un parallelo tra la battaglia di suo marito per sopravvivere e quella nei campi di concentramento.
«Sì, ha combattuto molto. In una esperienza estrema come quella che ho vissuto, la sensazione più positiva era il fatto di tenerlo in vita, standogli accanto, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Sono convinta di avere tenuto in vita i miei morti insieme a lui».
Suo marito non ricordava quasi più nulla.
«Mi chiedeva: Chi sei tu?. La prima volta mi sono sentita annientata. È stato drammatico per me: ero nessuno, un numero. Come quando ero il numero 11152. E poi una volta ho pronunciato Auschwitz e lui non ha avuto nessuna reazione».
E lei?
«Il fatto che avesse dimenticato quello che ho vissuto e che sono... Per me è stata la cosa peggiore, come se non contasse altro, come se potesse dimenticare tutto, ma non quello. Come poteva avere dimenticato Auschwitz?»
Scrive anche che lei non può permettersi di dimenticare, perché il suo vissuto non appartiene solo a lei.
«Il mio vissuto appartiene alla storia, a quello che è accaduto nell'Europa del '900. È difficile parlare di Auschwitz coi disastri che viviamo ogni giorno. Si rischia che il suo valore tragico sia diminuito: siamo invasi, stravolti di tragedia».
Ha detto in passato che Dio non c'entra con Auschwitz.
«Il male è nell'uomo, ne sono convinta. L'uomo però poteva imparare da quello che ha fatto. Il problema è che non è cambiato niente, né dopo Auschwitz, né dopo tutti i massacri degli ultimi cinquant'anni. L'uomo non impara dagli errori: questa è la tragedia».
Non c'è speranza?
«Si nasce con questo male, è l'istinto negativo dentro di noi. Non in tutti, ci sono le eccezioni».
Anche nei campi?
«Persino nei campi, sì. Una galletta con un po' di marmellata... A un certo punto lavoravo a Dachau, in un castello dove vivevano degli ufficiali. Pelavo patate e rape, cose così. Era il lavoro più bello del mondo, in un campo di concentramento, perché ogni tanto riuscivi a rubare un pezzo di carota, una buccia di patata».
Che cosa è successo?
«A un certo punto, lì a Dachau, il cuoco mi ha chiesto: Come ti chiami? Un miracolo. Questa è la luce, nei campi».
E poi?
«Mi ha detto: Ho una figlia come te e mi ha regalato un pettinino, che poi ho scambiato per un pezzo di pane, credo, perché ho mangiato di tutto, la scorza degli alberi, la cacca secca di vacca. Ecco, quello era un uomo, per citare Primo Levi».
Che era suo amico. La spinse lui a scrivere?
«No, avevo già cominciato in Ungheria nel '46, ma poi sono fuggita e ho buttato tutto. Ho ricominciato in Italia».
Perché scrive che la sua è «una esistenza sprecata»?
«Dopo i campi, forse questo è stato il dolore più grande: non siamo stati accolti, nessuno voleva ascoltarci. Eravamo solo avanzi di vita, che nessuno voleva. Non sapevano che fare di noi, e noi non sapevamo che fare di noi stessi».
Pensava sarebbe stato diverso?
«Pensavo: se sopravviviamo, il mondo si inginocchierà e ci chiederà perdono. Invece il mondo non ci ha guardato neanche in faccia. E sta tornando tutto».
Perché scrive in italiano?
«In Ungheria non volevano pubblicare il mio primo libro, perché avevo parlato degli stupri dei russi sulle donne ungheresi. E poi per me è più facile dire quello che dico in una lingua non materna».
Come mai?
«Non mi rievoca alcun ricordo. Se dico pane in ungherese penso subito a mia madre. Per questo non sopporto l'ungherese, anche se l'ho tradotto molto, né il tedesco, perché ho sentito troppi insulti e bestemmie. L'italiano per me è una difesa, una corazza che mi concede maggiore libertà».
Che cosa pensa dei film sulla Shoah?
«In generale penso male. Mi è piaciuto Schindler's List, che però è nel ghetto. L'unico film autentico per me è Senza destino, dal libro di Kertész: lì davvero senti il freddo, la fame. Gli altri non convincono».
Perché?
«Non puoi raccontare la Shoah con immagini: un tedesco che gioca a calcio con la testa di un bambino, i bimbi congelati a terra per gli esperimenti. Non puoi raccontare la Shoah, neanche con mille libri».
Quella di sopravvissuta è una etichetta?
«Sei in una gabbia. Non ti permettono di essere una persona come le altre. Non ti chiedono mai che cosa ti piace, che vita fai».
Che cosa fa?
«Sono una casalinga, mi piace cucinare, fare la spesa, amo i fiori, gli animali, giocare a carte...».
Che cosa la rende felice?
«I fiori e il pane. Volevo un negozio di pane e fiori. Il necessario e il superfluo».
E ha sposato un poeta. Ma che cosa pensa oggi?
«Nonostante quello che ho vissuto,
ringrazio Dio, o non so chi, di non sentire né rancore né odio. Un ragazzo mi ha chiesto: che cosa farebbe se avesse qui davanti l'uomo che ha gasato sua madre? Non farei niente. Non toglierei la vita neanche a una formica».
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