Ecco chi è Alberto Salerno, da quarant'anni in classifica

L'autore dei successi di Nomadi, Ramazzotti, Zucchero e tanti altri svela i retroscena di una carriera incredibile

Paolo Giordano

Attenzione, Alberto Salerno è una miniera. Di talento. E di ricordi. Ha appena pubblicato il libro Il primo anno va male, tutti gli altri sempre peggio scritto per Baldini & Castoldi a quattro mani con sua moglie Mara Maionchi, con la quale «a dicembre festeggeremo quarant'anni che ci mandiamo a cagare con tanto amore», confermando di essere una delle più autorevoli memorie storiche della canzone d'autore italiana «anche se oggi mi sembra di vivere in un altro mondo, come se fossi sbarcato su Marte». Ha quasi 67 anni, è figlio di Nicola Salerno che ha scritto anche Tu vuò fa l'americano e Non ho l'età, ma dall'inizio degli anni Settanta è una delle colonne portanti della nostra musica. «Diciamo che ho scritto sette od otto singoli da primi posti in classifica e 250/300 canzoniper album da top ten», spiega con la sua nonchalance ironica prima di srotolare una quantità di aneddoti da riempire una enciclopedia.

Ad esempio Lucio Battisti: «Sì certo lo frequentavo alla Numero Uno dove lavorava anche Mara. Una volta arrivo in sede e mi dicono che lui è in un'altra stanza: l'ho raggiunto e abbiamo ascoltato insieme tutto il suo Anima latina, forse il disco più complesso della sua storia. Mi diceva: Secondo me la mia voce è un po' troppo dentro la musica ma Giulio (Mogol - ndr) ha insistito che fosse così. Certo sono cose che a raccontarle oggi la gente non ci crede, ma allora succedeva proprio così».

Come accadeva che i gruppi famosi si mettessero all'asta per trovare il brano giusto. «Succedeva con tutti, con i Rokes, con i Dik Dik e con i Nomadi che nel 1972 cercavano un brano per partecipare a Un disco per l'estate. A me e a Damiano Dattoli hanno fatto ascoltare la musica e io ho pensato ad Augusto Daolio, alla voglia di libertà che avevamo dopo Woodstock: avevo 22 anni e tanti sogni. Dopo tre ore di whisky e sigarette è nato il testo, e capimmo subito che sarebbe stato un successo. Ma, se è rimasto nel tempo, parte del merito è di Fiorello che ai tempi del Karaoke lo faceva cantare tutte le sere. Ogni volta che lo incontro, scherzosamente lo ringrazio...».

Insomma «il Salerno», come lo chiama sua moglie, ha le idee chiare e il curriculum luminoso. Prendete Zucchero: «Io e Mogol avevamo fondato la società Nisa per produrre artisti. Un giorno mi dice: dobbiamo lanciare Zucchero. A me sembrava un Umberto Tozzi di serie B ma ho accettato di lavorarci. Giulio era il mastino, io l'angelo consolatore. Dopo tre o quattro mesi di lavoro durissimo, Zucchero ha iniziato a scrivere canzoni in modo diverso, sono arrivati Corrado Rustici e il brano Donne. Mogol non voleva mandarlo a Sanremo perché ha un testo che assomiglia alle cose che scrivevo 12 anni fa. Io gli ho risposto che dodici anni prima scriveva cose come Il mio canto libero e quindi è andato al Festival, dove è arrivato penultimo. Il disco non ha funzionato fino a settembre poi però è esploso in classifica. Un po' come è accaduto con La gatta di Gino Paoli: all'inizio solo cento copie vendute, poi il botto.

Potesse, Alberto Salerno parlerebbe per ore senza annoiare nessuno.

Dopotutto la forza dei suoi testi è di essere sganciati dall'attualità e di incarnare sentimenti senza tempo: «Non sono mai stato autobiografico», conferma. E brani come Io vagabondo (perfetto per i nostri tempi di migrazioni) o Terra promessa di Eros Ramazzotti a ogni generazione trovano un nuovo significato: «Era appena nato il Movimento Verde, che mi piaceva molto. E, quando nel 1983 mi proposero di collaborare con questo ragazzo, ho pensato a un testo del genere. Allora Eros era un po' grezzo, ma alla fine delle registrazioni mi dissero: Guarda che con questo pezzo vincete il Festival.

Fu così.

Arrivando da agenzie e case discografiche dove ogni giorno si incontravano Bennato, Finardi, Pfm e tanti altri creatori di musica d'autore, «il Salerno» è diventato una colonna del nostro pop. Ha lavorato con il grandioso Mango, con Anna Oxa («Senza pietà vinse il Festival»), con gli Homo Sapiens («Bella da morire nel '77 fu un'operazione chirurgica proprio per arrivare primi»), con Marcella Bella, Gianni Morandi e Alberto Fortis fino a incontrare Gianna Nannini: «Si presentò con stivali da moschettiere e Mara si innamorò della sua voce. Per due anni non successe nulla e a me sembrava una rapa dalla quale non si tirava fuori nulla se non testi femministi in linea con il tempo. Poi arrivò America e iniziò la fama».

Idem per Tiziano Ferro, scoperto con sua moglie all'Accademia di Sanremo: «Aveva una canzone bruttissima ma un timbro di voce straordinario. Pensavamo lo volessero tutti e invece no. Dopo averlo messo sotto contratto, abbiamo girato tutte le case discografiche per far ascoltare brani come Perdono, L'Olimpiade, Imbranato e Le cose che non dici: nessuno le voleva. Poi arrivò Fabrizio Giannini della Cgd che disse subito: Lo voglio».

Insomma, sono piccoli flash della storia di un autore e produttore che con le sue parole è entrato nella vita di tutti noi e che, con Mara Maionchi, forma una delle coppie d'oro del pop italiano: «Litighiamo sempre - dice ridendo - l'ultima volta tre giorni fa sulle elezioni. Però dopo ci mettiamo a ridere, ormai dopo tutti questi anni tenersi il muso non ha più senso...». E giù un'altra risata, diavolo d'un Salerno.

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