Ecco perché il Paese uscito dal comunismo piace ai conservatori

Masha Gessen non fa sconti a Putin ma spiega il ritorno prepotente della tradizione

Ecco perché il Paese uscito dal comunismo piace ai conservatori

Nel maggio del 2012, il giorno dell'insediamento Vladimir Putin firma dodici decreti, fra i quali: uno che dà «mandato al ministro degli Esteri di adottare una politica di massima vigilanza» verso Usa e Nato; uno con cui viene ordinato all'esecutivo di «introdurre un esame obbligatorio di lingua e storia russa per i lavoratori stranieri»; uno che stabilisce, come obiettivo del governo, «di aumentare il tasso di fecondità a 1,753 figli per donna entro il 2018». In quello stesso giorno, Putin incontra Jacques Rogge, presidente del Comitato olimpico internazionale, per discutere l'assegnazione dei Giochi invernali. E due giorni dopo, in occasione della Giornata della Vittoria del 9 maggio, una parata di quattordicimila soldati, sulle note dell'inno sovietico, celebra la grandezza della Russia.

In tre giorni è già delineato il disegno politico della presidenza: tutela degli interessi nazionali, anche quando questo significhi contrastare le ingerenze straniere; difesa dell'identità russa e, quindi, anche della tradizione; difesa della famiglia tradizionale, e sostegno per le madri; rafforzamento del prestigio internazionale; dimostrazione pubblica della potenza del Paese, con richiamo al passato glorioso; impegno militare. Nei mesi successivi, la direzione intrapresa dal Cremlino sarà sempre più chiara. È quella che ha portato Putin, presidente della Russia post-comunista, ex spia del Kgb nominato da Eltsin come suo successore dopo averlo messo a capo della polizia segreta, a diventare non solo il «salvatore» agognato dall'immaginario russo, ma anche un punto di riferimento della destra e dei conservatori europei. Ed è il percorso raccontato, in una inchiesta lunga e approfondita, da Masha Gessen in Il futuro è storia, saggio che ha vinto il National Book Award nel 2017 e viene ora pubblicato in Italia da Sellerio (pagg. 710, euro 18). Masha Gessen, nata a Mosca nel 1967, è una giornalista e attivista del movimento Lgbt, fuggita negli Stati Uniti due volte: nel 1981, per dieci anni; e poi di nuovo nel 2013. Quindi il suo punto di vista è quello di una persona «in esilio»: Gessen non risparmia le critiche a Putin, anzi, racconta nel dettaglio il giro di vite avvenuto nel Paese per quanto riguarda i diritti civili (in particolare le minacce alla comunità omosessuale, che poi l'hanno spinta a lasciare la Russia), le morti sospette degli oppositori, la politica estera aggressiva. Gessen analizza, attraverso le vite di una serie di personaggi e dei loro familiari l'evoluzione della Russia negli ultimi trent'anni, dall'era Gorbaciov in avanti. Uno di questi personaggi è Zanna, la figlia di Boris Nemcov, politico d'opposizione ucciso a Mosca nel 2015. Un altro è Aleksandr Dugin. All'inizio del racconto, nel 1985, Dugin è un giovane appassionato, che chiama il figlio Artur come Rimbaud, impara nuove lingue in due settimane, legge Essere e tempo di Heidegger su un microfilm di frodo. Anni dopo legge Schmitt e Popper, e nel 1994 pubblica un testo quasi premonitore: Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia. Dugin insiste sulla lotta contro l'impero globale e, soprattutto, sui «valori russi»: «la nazione, il passato, i valori tradizionali», fra cui ovviamente la religione ortodossa. Dugin instaura rapporti con «militanti dell'estrema destra francese», con «movimenti ungheresi alla destra di Orbán», con «organizzazioni ultraconservatrici europee e israeliane». Nel 2014, a ridosso della crisi della Crimea, Putin tiene un discorso che riecheggia le idee di Dugin sul «mondo russo»: esalta il «patriottismo», l'«aiuto reciproco», i «valori familiari». E aggiunge: «Mi pare evidente che stiamo assistendo, nei Paesi europei, a un processo di riaffermazione dei valori. I cosiddetti valori conservatori stanno ricominciando a prendere piede...

È naturale, del tutto naturale».

Sull'altra sponda (politica e geografica), nella comunità russa di Brighton Beach, nel 2016 accade qualcosa di sorprendente (ma forse no...): è uno dei pochissimi quartieri di New York ad avere votato per Donald Trump.

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