"Eccomi, tra gag e canzoni sono un vero Frankenstein"

L'attore da mercoledì al Brancaccio di Roma è in scena col musical tratto dal celebre film di Mel Brooks, per la prima volta in Italia

"Eccomi, tra gag e canzoni sono un vero Frankenstein"

«Lupo ululì, castello ululà». E ora alzi la mano chi non ha mai pronunciato una delle più celebri battute del cinema comico di tutti i tempi. Beh: la stessa battuta (assieme a tutti gli altri momenti-cult dello stesso film: il nitrito dei cavalli che puntualmente segue il nome della tetra frau Blucher; la noncuranza con cui il servo Igor trasloca la gobba ora a sinistra ora a destra della propria schiena) tornerà a far ridere da mercoledì al teatro Brancaccio di Roma. Si tratta della prima italiana del musical che lo stesso autore del film, Mel Brooks, ha tratto dal suo classico del 1974, Frankenstein junior. E a vestire i panni del maldestro erede dello scienziato folle (il Gene Wilder del film) ci sarà uno dei più brillanti protagonisti del musical italiano: Giampiero Ingrassia.
«Quando andai a vederlo al cinema, Frankenstein Junior, avrò avuto tredici anni. Beh: mai avrei immaginato che un giorno sarei diventato attore. E che avrei interpretato la stessa storia su un palcoscenico».
Ma come? Il figlio di Ciccio Ingrassia non pensava di diventare attore?
«Ci pensavo eccome: con un padre simile... Ma ebbi il coraggio di farlo (e soprattutto di dirlo a lui) solo a vent'anni, quando mollai lo studio e m'iscrissi al Laboratorio Teatrale di Gigi Proietti. Scelta fortunata: da quella scuola uscirono, negli stessi anni, nomi del calibro di Brignano, Insinna, Tirabassi, Laganà, Cirilli...»
E oggi, dopo trent'anni di carriera, eccola affrontare un vero classico della comicità.
«Un vero e proprio cult, direi. Al tredicesimo posto fra le cento commedie americane più amate di tutti i tempi. Non a caso nel 2007 è stato lo stesso Mel Brooks (anche ottimo musicista) a trasformarlo in musical con quindici canzoni in stile Broadway, e di eccellente qualità, che noi cantiamo rigorosamente dal vivo».
Tranquillizziamo i fan del film (organizzati in numerosi club): che differenze ci sono tra il film e lo spettacolo?
«A parte le canzoni, e un ritmo narrativo più serrato, il resto c'è tutto. Dal famoso manifesto, fino al bianco e nero della pellicola (che parodiava quello degli anni 40), ripreso nelle scenografie, lo spettatore ritroverà tutte le atmosfere originali: il castello gotico, il tenebroso laboratorio, il paesello transilvanico... Toccherà poi a noi, a me, e a Giulia Ottonello (la fidanzata Liz), Altea Russo (frau Blucher) e Mauro Simone (Igor) il compito più difficile: far ridere con gag e battute che già tutti conoscono a memoria».
Spettacolo impegnativo?
«Impegnativo? È un eufemismo. Massacrante, semmai. Le canzoni sono terribili, per due ore io sudo e mi sbraccio quasi sempre in scena. Ma a 51 anni è un buon sistema per tenersi in forma».
Regia di Saverio Marconi: una garanzia, nella riproposizione italiana dei classici del musical americano.
«Il primo musical di Saverio fu anche il mio: La piccola bottega degli orrori. Nel 2013 festeggeremo entrambi trent'anni di carriera. Allora in Italia musical significava solo Garinei e Giovannini. Oggi c'è una scuola, un pubblico, decine e decine di eccellenti performer. Unica differenza, rispetto alla tradizione anglosassone? I soldi. Con quelli loro possono fare tutto; perfino costruire teatri appositi per i loro spettacoli».
Suo padre, maestro della comicità popolare nata dalla commedia dell'arte, che ne pensava del musical?
«Non dimentichi che mio padre fece Rinaldo in campo. Lui era molto riservato. Ma veniva a tutte le mie prime, e si vedeva che era fiero di me. Quando mollai l'università per la scena, "impara due regole - mi disse - Piedi per terra. E rispetto per il pubblico, Se lo prendi in giro, il pubblico se ne accorge sempre"».
Un pubblico che lo ama ancora moltissimo, vero?
«Soprattutto i giovani. Me lo scrivono su facebook. È il destino dei grandi: essere amati dal popolo (gli incassi dei film di Ciccio e Franco salvarono la Titanus dai debiti del Gattopardo di Visconti) come dagli intellettuali (facendo di mio padre lo "zio matto" in Amarcord, Fellini creò una scena-mito del cinema)».
Ed essere figlio di cotanto padre non le è mai pesato?
«Negli anni 80 essere "figlio di" significava essere raccomandato.

In realtà la parentela favorevole si trasformava presto in handicap: il confronto era perso in partenza. Fortuna che poi i "figli di" della mia generazione - Gassman, Tognazzi, Guidi (cioè Dorelli) - hanno dimostrato di saper brillare di luce propria».

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