Peccato, se non altro perché questa Italia gli sarebbe piaciuta oltre ogni limite: surreale, dimessa, ridicola. Enzo Jannacci se ne è andato ieri sera togliendo a tutti quel riflesso che solo lui era riuscito a dare: come Longanesi, era grave ma non serio. Come i democristiani, era cattolico ma non credente. Come i veri rockettari, demoliva i luoghi comuni. Vengo anch'io, no tu no. D'altronde lì era nato, nella culla del rock italiano, dopo il liceo Manzoni di Milano con Giorgio Gaber (con cui formò I Due corsari) e la laurea in Medicina, dopo Elvis e Chuck Berry, dopo Clem Sacco e Adriano Celentano e tutta la Genova bene della canzone d'autore con Gino Paoli, Luigi Tenco e Bruno Lauzi. Jannacci era con chiunque, su disco in tv o in radio, ma è sempre rimasto da solo. Nessuno, neanche il cardiologo Christiaan Barnard che lo volle nella sua equipe in Sudafrica, riuscì a tenerlo nella propria squadra. Era un solista, non c'è niente da fare. Forse perché aveva suonato jazz con solisti in pectore come Stan Getz o Gerry Mulligan o Franco Cerri. O perché, dopotutto, aveva una cifra sua e inimitabile che oggi rende orfani tutti. Lui se ne è andato dopo una lunga malattia e un silenzio meno lungo ma ugualmente doloroso: ha partecipato nel 2010 e nel 2011 a Zelig, dove il suo bravo figlio Paolo è direttore d'orchestra, facendo evidente, sempre più evidente, la lontananza tra sé e la comicità di oggi, tutta politica, tutta molto spesso volgare.
Jannacci, sia che cantasse recitasse o scrivesse, era inattaccabile, elegante e geniale al punto di entrare nella lingua italiana anche quando cantava in dialetto milanese come in El portava i scarp del tennis, anno 1964, autentico ritratto di un senzatetto milanese che ancora oggi, nelle serate di nebbia in Piazza Affari o sotto i portici di via Rovello, si può trovare inalterato. Ecco, mezzo secolo dopo, anche dopo aver traballato in classifica e nella propaganda commerciale, Jannacci è ancora attuale. Forse più attuale ora di quarant'anni fa, quando si assopì e sparì per un po' dalle scene mentre tanti suoi amici, da Cochi e Renato, da Dario Fo fino a Mina, decollavano lanciando le proprie carriere. Ed è per questo che ieri sera, appena saputo della morte, tanti hanno detto: senza di lui non ci sarebbero i cantautori. Sembra un paradosso ma non è così. Fabrizio De André, ad esempio, giovanissimo usò la sua La mia morosa la va alla fonte, basata si di una trama musicale del XV secolo, come accompagnamento melodico di un suo superclassico come Via del Campo. Ed è inutile, persino stucchevole, ricordare Quelli che, il suo settimo disco del 1975 (registrato oltretutto con maestri come Tullio De Piscopo e Bruno De Filippi) che è diventato uno slogan per tv, titoli di giornale e insomma proclami di attualità. Anche oggi che se ne è andato, Enzo Jannacci è quello che. Quello che ha tirato fuori ciò che Alberto Sordi non poteva tirare fuori. Ciò che la politica evitava. E ciò che la gente non riconosceva perché in tutt'altre faccende affaccendata. Se uno ci pensa, Jannacci in tv è apparso poco in questi ultimi venti o trenta anni. Ma c'è sempre stato, privilegio, questo sì, di pochi. E forse, lui così sarcastico, ha scelto il momento giusto per andarsene. Malato, malatissimo, ha resistito fino a che la sua Italia ha resistito: ora che cambia non gli interessava più l'effetto che fa. E ha preferito, lui così fuori dalla realtà pur essendoci calato dentro fino al collo, evitare di averne a che fare perché intanto l'aveva già detto, quand'era in teatro al Carcano di Milano o sul set di Lina Wertmuller e Monicelli, quand'era Uomo a metà sulle tracce di Gaber (2003) oppure con Fazio che lo ha ospitato per l'ultima volta in tv a fine 2011. A farci caso, anche se distante ormai dal mondo, Jannacci era ancora dentro la nostra vita.
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