P rima prende fiato. Poi parla a lungo, dolcemente, quasi allegramente dell'amico che se ne è andato. Cochi Ponzoni è appena uscito dalla clinica Columbus dove Enzo Jannacci riceve l'ultima visita degli amici. «Per me era un fratello», dice Aurelio Ponzoni detto Cochi, 72 anni dei quali quasi cinquanta trascorsi conservando il filo diretto con Jannacci. Artisticamente erano siamesi, e il surrealismo dell'uno era lo stesso degli altri due. «Per me Enzo era un grande, ma ora non ho tanta voglia di parlarne», dice Renato Pozzetto. Cochi invece ne parla. Con la voce che qui e là si incrina. Per l'emozione. O per il sorriso più vero che c'è davanti all'amico che non c'è più.
Incontrarsi per caso e rimanere affianco mezzo secolo.
«Sì, ci siamo conosciuti per caso nel 1964. Renato ed io eravamo a fare cabaret al Cab 64 e lui era già famoso perché aveva già pubblicato I scarp del tennis. Dopo lo spettacolo ci siamo incontrati e per dieci anni siamo stati praticamente fratelli. A teatro. In tv. E in studio di incisione: ad esempio E la vita, la vita è stata musicata proprio da Jannacci».
Il testo dice: «C'è chi un giorno ha fatto furore e non ha ancora cambiato colore».
«Lui è rimasto sempre lo stesso Enzo. Un saltimbanco. Ecco la parola saltimbanco gli piaceva moltissimo. A modo suo, lo era».
Anche perché ha attraversato tutto lo spettacolo: dalla musica al cinema.
«E alla tv. La prima volta con noi è stata nel 1968 in Quelli della domenica. Poi Il poeta e il contadino, che sostanzialmente fece debuttare il cabaret in Rai. E infine la Canzonissima del 1974. Avevamo persino fondato una società, anzi una cooperativa, al Derby di Milano con lui, Lino Toffolo, Renato, Felice Andreasi e Bruno Lauzi: noi ci occupavamo degli spettacoli mentre il proprietario seguiva tutta la logistica. Momenti di pazzesca bellezza».
E Jannacci?
«Cantava le sue canzoni. Tra noi c'era una specie di simbiosi, avevamo davvero una visione surreale».
Che prendeva spunto dalle banalità della vita.
«Abbiamo sempre usato il linguaggio più comune per stravolgere la realtà. Anche perché, non dimentichiamocelo mai, Enzo non era solo un inventore di canzonette. Era anche diplomato al Conservatorio in pianoforte, composizione, armonia e direzione d'orchestra».
Siete stati la stampella surreale di un periodo angosciante, gli anni Settanta.
«Al Derby spesso c'erano duecento persone che non riuscivano ad entrare per vedere lo spettacolo. Richieste altissime. Segno che il surrealismo spesso è più attraente della realtà».
Poi vi siete un po' allontanati. Divergenze?
«Mai. Mai avuto problemi con lui. Anzi c'erano proprio armonia e profonda comunione interpersonale. Ci pensavo prima, alla Columbus, quando per la prima volta ho visto il suo corpo senza vita. Il mio caro Enzo».
A proposito: episodi surreali della vostra amicizia?
«Ci sono stati, ah se ci sono stati. Ma erano concentrati più nella vita privata, di cui ora non mi va di parlare. Erano cose nostre di ragazzi che viaggiavano, amavano. E si divertivano da pazzi».
Quasi paradossale che Jannacci se ne sia andato in un momento così surreale della nostra vita politica.
«Mai visto un periodo più strampalato di questo. Un Papa che si dimette. Un governo che non si forma. Lo avrebbero ispirato molto queste cose».
Però anche lui ha avuto alti e bassi. Ha trascorso periodi cercando quasi di essere invisibile. E qualche volta la critica lo ha preso di mira.
«Beh, questo capita a tutti gli artisti. La maggiorparte dei veri artisti riesce a mettere d'accordo tutti soltanto quando viene ricoverato in ospedale con l'Alzheimer. O quando muore».
Oggi sono tutti d'accordo, difatti.
«Ma Enzo è stato un grande poeta. Lo è sempre stato e nessuno può far finta di niente. Basta ascoltare le sue prime canzoni in milanese. E meditarne i testi per accorgersi che sono quelli di uno che vedeva prima ciò che sarebbe capitato solo dopo».
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