Ottantaquattro anni. Cinquecento colonne sonore. Settanta milioni di dischi venduti. Un Oscar e un Leone d'oro alla carriera. Una notorietà planetaria. Cos'ha ancora da dimostrare Ennio Morricone? Eppure c'è un momento- uno solo- in cui uno dei più celebri musicisti italiani al mondo si sente quasi un debuttante. Quando sale su un podio, alza la bacchetta, dà l'attacco all'orchestra
e gli tremano le mani.
Possibile? E le tremeranno anche giovedì sera, alle Terme di Caracalla in Roma, per il concerto dedicato alle sue musiche da film?
«Quando sono lassù io mi preoccupo ogni volta. Posso avere anche centomila persone, alle spalle: non me ne accorgo. Sono troppo concentrato, sono solo. Solo fino agli applausi conclusivi. Allora tutto si scioglie. Il miracolo s'è ripetuto un'altra volta. E posso passare anch'io dalla parte del pubblico».
Guai fare un'intervista ad Ennio Morricone e citargli gli «spaghetti western».
«Guai. A chi mi chiede di parlare di western all'italiana rispondo che parleremo un'altra volta. Odio quel termine: lo trovo riduttivo, superficiale, provinciale. I film di Sergio Leone sono dei capolavori. E basta».
Ma è vero che da bambini eravate stati a scuola assieme, e che lo scopriste solo quando vi ritrovaste, trent'anni dopo, per la colonna sonora di Per un pugno di dollari?
«Appena entrato la prima volta a casa mia -era il 1963- glielo dissi. Non ci credeva. Allora gli mostrai la foto della terza elementare. C'eravamo tutti e due. Nacque subito un feeling. Anche se, quando canticchiava per fami capire cosa voleva, stonava maledettamente. Faceva ti, ti, ti
e io non ci capivo nulla».
Fu proprio con le pellicole di Leone che lei applicò -primo al mondo- la teoria che ogni suono può essere musica da film.
«Certo: quand'è il caso. Così nei western di Sergio misi lo scacciapensieri siciliano o il marranzano asiatico; ma anche colpi di frusta, di martello, di campane. E poi la voce umana, ma usata come uno strumento. Voce che canta, che fischia, che si schiarisce la gola, che schiocca la lingua
In una partitura dedicata all'inverno misi perfino dei colpi di tosse».
Forse perchè -cito sempre lei- «la musica ha solo sette note. E ormai quasi tutte le combinazioni possibili, fra queste sette note, sono state realizzate»? Vuol dire che non avremo altri Mozart?
«No. Vuol dire che essere originali diventa sempre più difficile. Certo: si possono usare diversamente le stesse combinazioni. Ma bisogna saperlo fare. Ecco perchè nei casi di plagio (ad esempio quando Al Bano accusò Michael Jackson di avergli copiato una canzone) la malafede salta subito agli occhi. Cioè: alle orecchie».
A quale fra questi colleghi invidia la sua più celebre colonna sonora? Vaxman per Via col vento, Bernstein per I magnifici sette, Hermann per Psycho, Rota per 8 e mezzo, Williams per Guerre stellari.
«A nessuno. Ma quello che ammiro incondizionatamente è l'Hermann di Psycho. Componeva e orchestrava tutto da sé. Il pubblico non lo sa: ma molti autori di colonne sonore -anche famosi-non fanno tutto da soli».
E Nino Rota? Gli si rimproverava di riutilizzare la stessa musica per film diversi. Lo fece anche col tema di Fortunella, che divenne poi quello del Padrino.
«Il genio di Rota sapeva dare alla stessa musica caratteri radicalmente diversi. Piuttosto c'è da dire che il Rota di Fellini non è il Rota più grande. Lui dava a Fellini -che era dotato di una cultura musicale modesta- quel che Fellini voleva. Solo una volta Federico non potè insegnargli nulla. Nel Casanova. E difatti è lì che Rota è il vero Rota».
C'era un tempo in cui Ennio Morricone, allievo di Goffredo Petrassi, autore di brani sinfonici, corali e da camera, quasi doveva vergognarsi di essere «anche» un compositore di musica da film.
«Quello snobismo culturale non è ancora finito.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.