"Era Hunter Thompson. Ed era il mio folle padre"

Il figlio del reporter scrittore narra la propria infanzia in compagnia di un genio sregolato che amava soltanto la letteratura. Una vita tra armi, droga e feste pazze

"Era Hunter Thompson. Ed era il mio folle padre"

«Non trovo nessuna soddisfazione nel vecchio, tradizionale pensiero giornalistico: il giornalismo oggettivo è una delle ragioni principali per cui ai politici americani è stato permesso di essere tanto corrotti e tanto a lungo. Non si può essere oggettivi su Nixon». Non le ha mai mandate a dire Hunter Thompson, grandissimo scrittore americano e inventore nel 1970 del gonzo journalism ancora più radicale del new journalism inventato da Tom Wolfe, Lester Bangs e George Plimpton. Thompson, giovane inviato della rivista musicale Rolling Stone, ebbe per primo l'idea di raccontare tutto quello che succedeva prima e dopo le sue interviste. Lo mandavano a recensire un concerto e lui faceva pubblicare un articolo in cui scriveva, con uno stile apparentemente folle ma efficacissimo, che non era andato al concerto ma si era fermato tutta la notte in un bar di quarta categoria, o in un motel o a un ritrovo di motociclisti o a un comizio politico e attraverso quella lente riusciva a descrivere quell'America così unica, cinica e allo stesso tempo psichedelica, che usciva dalla sua penna.A Hunther Thompson è ora dedicata la biografia scritta dal figlio Juan F. Thompson Stories I Tell Myself: Growing Up With Hunter S. Thompson (edito negli Stati Uniti da Knopf, pagg. 138. 27,64 dollari). È il racconto di una relazione padre-figlio piuttosto tormentata: lontano dall'essere un'agiografia è piuttosto un memoir feroce e tenero, raccontato attraverso una scrittura che ha il ritmo narrativo dei migliori romanzi. Sin dall'introduzione dove leggiamo: «Hunter S. Thompson era un uomo complesso, fin troppo complesso perché riuscissi a conoscerlo o capirlo completamente. Era famoso, quasi idolatrato da certe persone ma sconosciuto da altre, era brillante, un maestro della parola e uno dei più grandi scrittori del ventesimo secolo. Era alcolizzato e dipendente da droghe, era selvaggio, irascibile e passionale, a volte pericoloso, carismatico, un irresponsabile, un idealista, un uomo sensibile con un profondo senso della giustizia. Più di tutto il resto, era mio padre, e io ero suo figlio. Nessuno può sfuggire a questo legame. Buoni o cattivi, forti o deboli, vivi o morti, vicino o lontani, i nostri padri rimangono con noi. Questa è la storia di come io e mio padre ci allontanammo l'uno dall'altro, e di come, per venticinque anni, cercammo di ritrovarci, prima che fosse troppo tardi». Hunter S. Thompson è conosciuto da molti come il drogato e il fuorilegge interpretato da Johnny Depp nel film Paura e Delirio a Las Vegas - film diretto da Terry Gylliam dall'omonimo romanzo di Thompson, pubblicato in Italia da Bompiani-, ma per il figlio in realtà era molto più complesso. Era certamente dedito a molte dipendenze - dall'alcool alla cocaina, dal cibo alle armi da fuoco- ma al contempo è stato anche tra i geni assoluti della letteratura americana. Se Paura e Disgusto a Las Vegas è «una selvaggia cavalcata nel cuore del sogno americano», un libro come Meglio del sesso, confessioni di un drogato della politica (Baldini Castoldi) è, a oggi, il miglior resoconto mai scritto da un giornalista sulle elezioni presidenziali statunitensi grazie a una abilità più unica che rara nel raccontare il dietro le quinte della politica show senza cadere nel complottismo. Ed è anche quel Thompson che ritroviamo in questo libro del figlio e ben lontano, ad esempio, dalla pessima biografia ufficiale scritta da Jean Carroll (The Strange and Savage Life of Hunter S. Thompson). Nato nel 1964 a Woody Creek, Aspen, Colorado, Juan Thompson sin da piccolo si abituò agli eccessi del padre: lo svegliava sempre al pomeriggio dopo notti passate tra cocaina, acidi, alcool, antidepressivi ricevendo in cambio insulti e minacce. Padre e figlio non hanno mai pranzato o cenato insieme, mai festeggiato un compleanno. Il momento più intimo era quando pulivano insieme le armi.Juan, oggi agente assicurativo, ci ha messo una vita per liberarsi dai fantasmi del padre. Quello stesso padre che gli aveva dato la vita ma che non ci pensò due volte a suicidarsi davanti a lui sparandosi con un fucile in testa. Una vita difficile, come si può intuire anche leggendo che «di tanto in tanto Hunter faceva entrare me e mia madre nel suo mondo. Aveva incontrato Ken Kesey, l'autore del romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo, che era famoso anche per le feste selvagge che organizzava in casa sua, fra i boschi di San Francisco. Entrambi pensarono sarebbe stata una buona idea invitare gli Hells Angels a una delle feste di Kesey, e naturalmente venne invitata anche mia madre, che mi portò. Avevo soltanto un anno, ma posso immaginare la scena: dozzine, forse centinaia di persone strafatte, in trip da LSD, che bevevano tre birre alla volta, vagando nei boschi mentre la musica si diffondeva dalla casa e le luci colorate pendevano fra gli alberi. A un certo punto della festa, gli Hells Angels violentarono in gruppo una donna, evento che perseguitò Hunter per molto tempo. Nel bel mezzo di questo macello, c'ero io, un anno, forse meno, che dormivo nell'angolo di una stanza, probabilmente al sicuro, ma in una situazione che viola tutte le mie nozioni di genitore responsabile». Hunther Thompson, racconta il figlio, ripeteva spesso di essere «nient'altro che un arguto montanaro», ma «era impossibile da definire. Era originale. Più di quanto si possa pensare. Incarnava dentro di sé più contraddizioni di chiunque altro. Era insieme un pazzo scriteriato e un gentiluomo del sud, un profeta e un teppista, un idealista e un cinico».

E tiene a sottolineare che «Prima di ogni cosa, Hunter è sempre stato uno scrittore nel senso più alto del termine, quello per cui scrivere è una vocazione, non un'occupazione. Tutto il resto era secondario. Droghe, famiglia, amanti, amici, sesso, avventure, venivano dopo la scrittura».

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