Trent'anni e sentirli molto. Forse troppo. Il rap invecchia e non riesce più a nascondere (bene) le rughe anche se è nato contestatore nel Bronx di New York, insomma nel ghetto più ghetto che c'è, e adesso vive borghesemente negli hotel a cinque stelle superlusso. Un po' come se un eremita scegliesse a un certo punto di trasferirsi in un grattacielo. A luglio del 1982 è uscito negli Stati Uniti il singolo The message, rap allo stato purissimo firmato da Grandmaster Flash and the Furious Five, che sdoganò ai piani alti della classifica (quarto posto su Billboard) quella sorta di musica suonata fino a quel momento solo nelle feste private. Per di più, The message aveva, sorpresa!, un testo a sfondo sociale (le difficoltà di vivere in centro città senza soldi). Da lì è stata una fenomenale scalata al successo che in poche righe è difficile riassumere. Per farla breve, a metà anni Settanta autentici fuoriclasse come Dj Kool Herc o Afrika Bambaataa avevano iniziato a selezionare canzoni funk, soul e R&B per poi separare le ritmiche e mescolarle seguendo l'esempio di ciò che James Brown faceva con i brani di Little Richard e altri padri tutelari del rock'n'roll. Quell'intuizione (considerata la radice della Old school) ha generato un fiume in piena di breakbeats, scratch e rapping fino a superare i limiti sociali e diventare un fenomeno mondiale. A sdoganare il rap persino a noi europei - musicalmente lontanissimi - fu soprattutto il duetto tra Run Dmc e Aerosmith (pompatissimo da Mtv) sulla splendida Walk this way nel 1985: rockettari e rapper, bianchi e neri, due mondi a confronto ormai senza barriere. La culla musicale che conteneva tutta la sofferenza di vivere emarginati cominciava a dondolare anche nel grande circuito di comunicazione. La discografia (e non soltanto la seminale Sugar Hill Records) se ne accorse e da lì sbocciarono megaseller ibridi come Vanilla Ice o Mc Hammer, il primo rapper a vendere oltre dieci milioni di copie con Please Hammer don't hurt 'em. Poi il rap entrò nella sua seconda fase, quella più autentica, più sporca, quella sangue e arena. Tupac Shakur (poeta vero) e Notorius B.I.G. sono le principali vittime della faida tra West Coast ed East Coast: finita con il referto di morte del medico legale. Era il 1997. Da quel momento il rap ha iniziato lentamente a svoltare. E a trasformarsi. Intanto che il G-Funk e il gangsta rap, ossia l'evoluzione quasi kitsch e sicuramente criminogena di Ice T o NWA, facevano capolino in classifica, il rap (o hip hop, termine inventato da Dj Kool Herc) aspettava il passepartout per i piani alti del music business. Ce l'ha fatta soprattutto grazie a Dr Dre, rapper e produttore, autentico re mida disposto a qualsiasi compromesso. E a macchine da soldi come Puff Daddy (così matto da cambiare persino nome: Puff Daddy, P. Diddy, Niddy, Faun John, Diddy e Puffy), l'ormai disorientato Eminem o Jay Z, al secolo marito di Beyoncé. Dopo almeno due decenni da guerrilleri resistenti, da contestatori assassinati e da poveracci con la croce di metallo al collo, i rapper sono diventati ricconi con la Bentley e il primo posto in classifica assicurato (adesso un po' meno a dir la verità).
Un cambio epocale.
Anche grazie al rap, i ghetti sono sempre più amalgamati alla normale vita metropolitana. E grazie al rap, i rapper sono diventate megastar. Jay Z è il secondo cantante più ricco del pianeta, Diddy (sempre quello là che cambia nome ogni tre per due) guadagna 550 milioni di dollari all'anno. Dr Dre 260. 50 Cent 110. Il pressoché sconosciuto (da noi poveracci europei) Birdman è a quota 125 milioni, forse più ricco di Marchionne. Insomma, un sistema che, almeno secondo Forbes, riesce a muovere ogni anno almeno un miliardo di dollari. E che si allarga in tanti rivoli, legati a tutti i marchi, le franchise, i gadget, le collezioni di moda che i megarapper ogni anno riescono a spalmare sul mercato. Per capirci, Jay Z, considerato il miglior Mc di tutti i tempi da Mtv, ha le mani e il portafogli nell'abbigliamento sportivo di Rocawear e nel basket dei New Jersey Nets. Idem per Diddy e per tanti altri, praticamente tutti maschi perché il rap è un fenomeno pressoché maschile. E alla fine, mentre nella top ten di Billboard di questa settimana non figura nessun rapper di primo piano, i grandi rapper appaiono invece tra i più ricchi nella classifica di Forbes.
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