Era inevitabile che Giampaolo Pansa, l'autore del «libro infame», Il sangue dei vinti, ritornasse sul luogo del delitto: il delitto storiografico, politico, morale (mai condonato) di aver attentato al mito fondante della Repubblica nata dalla Resistenza togliendo il velo alla sequela di violenze, assassini, esecuzioni sommarie di ex fascisti - talora solo presunti - che hanno insanguinato il nostro dopoguerra. Era il 2003 quando una delle più popolari e stimate firme del giornalismo di sinistra osò dare alle stampe il libro incriminato: una lunga, sconvolgente sequela di delitti costati la vita a molti italiani colpevoli - non sempre in modo comprovato - di essersi macchiati di gravi misfatti, talora semplicemente di essersi schierati dalla parte sbagliata nel Ventennio o nei fatidici seicento giorni della Rsi. Fu subito un'esplosione di polemiche, di attacchi, di scontri che implacabilmente accompagnarono il lungo tour di presentazione del libro in giro per l'Italia, per non dire delle intimidazioni subite dall'autore quando osò metter piede in partibus infidelium, dove vigeva il bando del politicamente e storiograficamente scorretto.
Era inevitabile che Pansa tornasse su quella tormentata stagione di polemiche. Per più di un motivo. Perché il libro, subito incriminato di lesa maestà alla Resistenza, gli aveva fatto toccare l'acme della popolarità, con ristampe sfornate a tambur battente fino a raggiungere il milione di copie vendute. Perché fu un caso storiografico unico nella storia repubblicana. Perché infine, a distanza di anni, sarà pur venuto il momento di storicizzare quella polemica, di fare cioè un bilancio delle ragioni pro e contro che portarono allora l'Italia a schierarsi in due fazioni l'una contro l'altra armarla.
Il primo, non solo titolato a esprimere un parere al riguardo, ma che ha sentito l'urgente bisogno di riparlarne, è stato appunto il protagonista o, meglio (per i suoi avversari) l'imputato numero uno. Lo ha fatto al suo solito modo: diretto, polemico, provocatorio. Già dal titolo: Quel fascista di Pansa (Rizzoli, pagg. 240, euro 20; in libreria da oggi). Avvalendosi di aneddoti, curiosità e testimonianze di molte vittime della lunga guerra civile post 25 aprile e di loro familiari, che dopo l'uscita del libro inondarono letteralmente di lettere accorate l'autore, nonché delle requisitorie sviluppate dai suoi, non meno numerosi, critici, Pansa conduce per mano il lettore a rivisitare quell'infuocata kermesse politico-storiografica che si innestò all'apparizione del libro, in qualche caso addirittura al solo annuncio.
Kermesse fu e non poteva non essere. Il sangue dei vinti era il libro giusto uscito al momento giusto, per i suoi denigratori il libro sbagliato nel momento sbagliato. Sono gli anni infatti del gran ritorno in auge della destra. Impera Berlusconi, il Cavaliere nero, macchiatosi dell'onta di aver non solo sdoganato, ma addirittura portato al governo il partito sospettato di perpetuare sotto mentite spoglie cultura, valori, tradizione del mai debellato neofascismo. Ci voleva solo che, dopo lo sdoganamento politico della destra, uscisse un libro che completasse l'opera attuandone anche lo sdoganamento storico. A questo punto, sarebbe caduto anche l'ultimo argine al suo dilagamento. Ai custodi della memoria mitizzata della Resistenza era proprio questo il ruolo svolto dall'operazione editoriale di Pansa.
Al di là delle specifiche vicende luttuose rievocate nel libro, l'addebito principe lanciato contro il libro dai denigratori fu che non era lecito né storiograficamente né moralmente, tanto meno politicamente, illuminare «il lato oscuro della guerra civile». Esattamente l'opposto di quel che invece da mezzo secolo si aspettavano le vittime della guerra civile: un popolo di «esuli in patria», dimenticati, cittadini dimezzati perché gravati da una colpa inespiabile, familiari di fascisti che per non vedersi rinnovare il bando dalla cittadella democratica avevano preferito rifugiarsi in «una torre di silenzio», stretti nella morsa «della paura, della vergogna».
Non conta se quanto rievocato nel libro di Pansa fosse veritiero, documentato, non smentibile. Il sangue dei vinti era «un libro infame» che «danneggiava i valori della Resistenza». Di più: portando alle estreme conseguenze il revisionismo, quella denuncia di violenze perpretrate a danno dei vinti avrebbe attuato una sorta di rovescismo. Dipingendo i partigiani come criminali e i fascisti come vittime o eroi, si era finito col ribaltare le conquiste storiografiche e coll'abbattere il patrimonio di valori su cui si è fondata la democrazia repubblicana.
Pansa richiama, uno a uno, i capi di imputazione avanzati a suo carico, per demolirli e rivendicare la validità dell'operazione editoriale da lui condotta. Non accetta l'accusa di essere «un falsario» e nemmeno uno storico poco scrupoloso nel documentare le sue affermazioni. La pretestuosità di tali accuse è comprovata - non manca di rimarcare dal fatto che i suoi accusatori finirono col contraddirsi avanzando l'imputazione opposta, e cioè che egli si limitava a narrare «vicende già note». Resta il rilievo dell'inopportunità dell'iniziativa. Se inopportuna è stata l'iniziativa, non di meno si deve convenire che inopportuno era il rilievo. Come scrive Pansa: «In una società democratica, nata dalla vittoria contro una dittatura, imbavagliare chi ha perso contraddice un principio che tutti dovremmo avere caro».
Da ultimo, ci sia consentito l'impertinenza.
Siamo così sicuri che sia stato un buon servizio alla democrazia costringere al silenziamento indistintamente tutto il sommerso dei vinti, impedendo di «riacquistare il diritto di esistere» anche a chi, come si lamenta l'orfana di una vittima dei partigiani, pur nutrendo «idee di sinistra», s'era vista costretta a «stare zitta» per mezzo secolo, senza nemmeno poter dar voce pubblica al suo lacerante dolore?
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