C'è del genio in Danimarca. E Il sospetto di Thomas Vinterberg, appena uscito nelle sale e salutato dalla quasi totalità della critica come un capolavoro, è solo l'ultimo di una gloriosa teoria di nomi e di titoli che negli ultimi anni hanno impresso il loro marchio di fabbrica nell'immaginario cinematografico. Opere immerse completamente nelle cose della vita che affrontano il più ampio spettro delle tragicommedie umane in maniera diretta, senza filtri intellettualoidi, senza approssimazioni sociologiche. La vita e la morte, così come sono. E Il sospetto non fa certo eccezione: Lucas (interpretato da Mads Mikkelsen - il villain dello 007 Daniel Craig di Casino Royale - premiato a Cannes come migliore attore dalla giuria presieduta da Nanni Moretti che infatti sta programmando il film nel suo cinema romano) è un ex maestro elementare costretto a ripartire da zero dopo un brutto divorzio e la perdita del lavoro. Ma proprio quando sembra che le cose stiano andando per il verso giusto - insegna in un asilo e si fidanza - l'accusa di pedofilia sconvolge la sua vita, scatenando un'ondata d'isteria collettiva nella piccola comunità in cui vive (la «caccia» del titolo dal doppio senso perché Lucas è anche un cacciatore).
La potenza estetica - oltretutto molto riconoscibile - del cinema di Vinterberg rimane impressa nella memoria come un chiodo su una tavola. La stessa che pervade tutto il cinema di Lars von Trier, il regista attualmente più conosciuto del paese scandinavo, mentore e produttore dello stesso Vinterberg che non ha caso ha realizzato il suo film più bello, Festen - Festa in famiglia, seguendo proprio i dettami del maestro e del decalogo Dogma 95: macchina da presa a mano, niente luci artificiali, niente musica se non presente sul set che però deve essere il luogo reale dove la storia si svolge. Un manifesto teorico di cinema semplice ma rivoluzionario che ha influenzato tutta l'estetica del cinema scandinavo.
Per questo non si fa fatica a riconoscere una certa cifra stilistica in opere eterogenee, come Fratellanza - Brotherhood di Nicolo Donato, vincitore al festival di Roma nel 2009, che entra a gamba tesa su argomenti tabù come i neonazisti, i militari e l'omosessualità. O come, naturalmente, tutto il cinema di Lars Von Trier, l'autore di Le onde del destino e Melancholia parimenti amato e odiato, che ha appena finito di girare il «pornografico» Nymphomaniac con Shia LaBeouf e Charlotte Gainsbourg. Certo la figura di Lars Von Trier è centrale anche come produttore visto che ha contribuito all'affermazione di un altro cineasta, Per Fly, con cui ha realizzato La panchina, Gli innocenti e L'eredità, entomologica trilogia sulle classi sociali danesi dal proletariato all'alta borghesia.
Un cinema che fa di tutto per tenere incollato lo spettatore alla sedia. E qui il nome più azzeccato è quello di Nicolas Winding Refn, il «danese selvaggio» secondo la rivista Rolling Stone, il regista del celebrato Drive e dell'atteso Only GodForgives sempre con Ryan Gosling (il cui volto tumefatto campeggia nella evocativa locandina) che viene definito il «Tarantino europeo» con cui però non condivide la rappresentazione postmoderna della violenza che nel cineasta danese è invece molto più concreta, meno fumettistica, e quindi ancora una volta molto più vicina alla realtà. La stessa che viene scandagliata in tutto il cinema di Susanne Bier, la regista specializzata in drammi (per alcuni ricattatori), premio Oscar lo scorso anno con In un mondomigliore.
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