Denis Villeneuve, regista canadese di talento che ha già all'attivo una candidatura all'Oscar per il suo "La donna che canta", torna nelle sale con "Prisoners", un film che ha budget e protagonisti hollywoodiani ma che presenta qualità tipiche del cinema indipendente. Si tratta di un thriller che imprigiona lo spettatore, per oltre due ore e mezza, in una sorta di limbo uggioso intriso di autenticità e inquietudine.
Keller Dover (Hugh Jackman), la moglie Grace (Maria Bello) e i loro due bambini vivono in un tranquillo quartiere periferico di Boston. Il giorno del Ringraziamento si recano a cena dai vicini, Franklin e Nancy Birch (Terrence Howard e Viola Davis), che hanno due figli della stessa età. A un certo punto le bambine più piccole, uscite a giocare davanti casa, scompaiono. Dopo una ricerca frenetica, i genitori capiscono che devono essere state portate via su un camper che si trovava, fino a poco prima, parcheggiato nei dintorni. Del caso viene incaricato il Detective Loki (Jake Gyllenhaal), il quale non tarda a trovare e mettere sotto interrogatorio il proprietario del mezzo, Alex Jones (Paul Dano), un giovane con ritardo mentale. Mancando le prove a suo carico, il sospettato viene rilasciato e ricondotto a casa dove è posto sotto la custodia della zia (Melissa Leo). Ma Dover si è nel frattempo convinto che il rapitore di sua figlia sia davvero quello che la polizia sta lasciando andare, perciò decide di farsi giustizia da solo: rapisce il ragazzo e lo segrega in un vecchio edificio fatiscente per costringerlo a parlare.
"Prisoners" è una pellicola che mette alla prova; non solo per la durata, cui avrebbero giovato qua e là piccoli tagli, ma anche perché è un viaggio nella disperazione, nel dolore e nella violenza. L'interpretazione di Jackman, nei panni di chi perde in un colpo solo ogni riferimento e certezza e lascia divampare il proprio lato oscuro, è superlativa per drammaticità e ferocia. Il suo personaggio, Keller Dover, è un pater familias vecchio stampo la cui priorità è proteggere i propri cari e che, una volta messo alla prova dalla vita, si trasforma da fervido credente in carnefice senzadio. E' solo uno dei "prisoners" del titolo perché, se è vero che lui è ostaggio di paranoie e paure più o meno plausibili già da prima che avvenga il rapimento e poi lo diventa della propria cieca crudeltà, gli altri protagonisti non sono da meno. Il detective Loki, ad esempio, (un Gyllenhaal in stato di grazia), con i suoi criptici tatuaggi, un tic facciale e zero vita sociale, è prigioniero di un lavoro che lo espone continuamente al senso di colpa.
Elegantemente costruito, questo film presenta uno stile rigoroso e preciso; i dettagli, cui il regista presta un'attenzione maniacale, sono il medium attraverso cui ci viene suggerito molto sui personaggi e sull'ambiente in cui vivono, senza che ci siano spiegazioni didascaliche ad attenuare l'allure enigmatica. La trama è labirintica e presenta false piste e svolte narrative in modo da preservare il mistero e la tensione, nonostante il ritmo sia tutt'altro che vivace. "Prisoners" è inquietante, intenso e, in alcuni momenti, poeticamente minaccioso e deve moltissimo alla fotografia di Roger Deakins, capace di avviluppare in un'oscurità piovosa e gelida.
Ottime performance al servizio di complessi interrogativi di natura etica, sono cosa rara al cinema.
A dieci anni dal "Mystic River" di Eastwood, finalmente un film che ne richiama la bellezza e il tormento.
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