Dal folclore ai populismi: il Pifferaio magico non smette di incantare

Torna il poema di Marina Cvetaeva ispirato alla leggenda di Hamelin. Ancora attuale...

Dal folclore ai populismi: il Pifferaio magico non smette di incantare

La leggenda del Pifferaio di Hamelin, nata nel Medioevo tedesco, ha ispirato molti autori, tra cui i fratelli Grimm e Robert Browning, prima di Marina Cvetaeva, che ci costruisce un poema dall'andamento musicale e teatrale con molta ispirata genialità e molte raffinate soluzioni stilistiche ne L'accalappiatopi (Edizioni e/o, pagg. 330, euro 18), ben tradotto da Caterina Graziadei e da lei curato con un dottissimo apparato di note (il testo apparve la prima volta in Italia nel 1983). Il tema della leggenda è entrato nell'immaginario popolare europeo: un borgo invaso dai topi ne viene liberato da un misterioso Pifferaio che al suono del suo strumento allontana tutti i roditori portandoli ad annegare in un fiume. Quando il compenso pattuito gli viene negato, il Pifferaio riprende in mano il suo strumento e questa volta sono i bambini a seguirlo e a scomparire. Che fine facciano bambini è oggetto di diverse varianti: annegano nel fiume anche loro, o il Pifferaio li chiude nella grotta segreta di una montagna, o li porta con sé in altri viaggi incantati.

Sapendo che su questo tema ha scritto una ballata Goethe, sono subito andato a cercarla: è mia consuetudine rivolgermi a Goethe quando voglio capire di più della letteratura e del mondo. Ebbene, la ballata intitolata Der Rattenfanger, L'acchiapparatti, espunge dalla leggenda gli aspetti oscuri e tragici, e fa dell'acchiapparatti un «cantore rinomato» che «molto ha viaggiato» e che estende le sua facoltà di incantatore diventando un acchiappabambini, con la sue favole d'oro, e all'occasione anche un acchiapparagazze: «In tutte le città dove è stato/ più d'una ha subito il suo incanto».

Marina Cvetaeva, che scrive il suo poema poco dopo la fuga dalla Russia, tra Praga e Parigi, nel 1925, ha una cultura dominata dall'amore della tradizione tedesca e dal potere della musica, che gli viene dall'educazione materna. Di fronte alla antica leggenda del Pifferaio di Hamelin, città il cui nome traslittera in Hammeln, più pesante e pieno, l'autrice ne va a scovare, come è sempre possibile nelle leggende, gli aspetti mitici, e il suo Pifferaio vestito di verde prende trasparenze che ricordano Orfeo, Teseo, forse persino la leggerezza del dio Ermes. Marina Cvetaeva non ha la serenità olimpica di Goethe, quella che fece sempre preferire all'autore del Faust la chiarezza solare del mito greco alla oscurità barbarica del mito germanico: la poetessa russa ha un animo tormentato, visionario, in certe parti ho sentito nel suo poema un'eco wagneriana, dei Maestri cantori di Norimberga, certo, ma anche dell'Oro del Reno, e forse anche del Poema dell'estasi di Aleksandr Scriabin. Il borgo di Hammeln, il suo Borgomastro, diventano i simboli della grettezza borghese.

Il borgo è vecchio e rispettabile, solido, lindo, lustro, e «la notte che apparve la cometa/ dormì un sonno sodo e sincero», impassibile di fronte a qualunque evento, anche cosmico. I prezzi del manzo, della panna, della ricotta sono bassi, l'unica merce cara, e rara, è il peccato. Non ci sono anime, ad Hammeln, ma corpi, e che corpi, non ci sono poveri, l'unico che c'era è morto ed è stato sepolto lontano dagli altri per ordine del pastore. Ma a un certo punto in questa città virtuosa, di buoni costumi, di fondaci e di stomaci pieni, dove il Borgomastro in sogno vede i suoi borghigiani, i suoi vassalli e i suoi fittavoli, dove è bandita ogni musica e dove si sente, per chi sa sentirlo, il fetore della pulizia e il tanfo dell'opulenza, irrompono orde di ratti (chi sono davvero i ratti per la Cvetaeva: i «Messia della classe oppressa», i topi-ammasso del totalitarismo? Altri hanno visto nell'opera della poetessa russa la condanna di ogni utopia rivoluzionaria, altri vi leggono oggi una satira del «potere popolare»...). Nessuno è in grado di cacciarli se non questo misterioso Pifferaio, cui viene promessa in cambio la mano di Greta, figlia del Borgomastro. Ma alla resa dei conti, la promessa non viene mantenuta: la musica è vista come un affronto al buon senso, un tifo, un crac bancario. Era stato detto: «Sia diavolo o giudeo» chi libererà la città diventerà genero del Borgomastro: nessuno aveva previsto e non era contemplato che a liberarla non sarebbe stato un diavolo né un giudeo, ma un musicista, che è peggio di entrambi.

Ed è così che il Pifferaio si porta via tutti i bambini del borgo, che dalle case e dalle scuole lo seguono al suono delle sue note incantate sino a un lago, nelle cui acque li vediamo scendere dai ditini alle caviglie, alle ginocchia, alle spalle, al nasino e alla gola. Per una punizione terribile: o per nuova vita magica, forse?

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